martedì 12 maggio 2009

CANTO TRENTAQUATRESIMO

"Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira",
3 disse ’l maestro mio, "se tu ’l discerni".
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
6 par di lungi un molin che ’l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
9 al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
12 e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
15 altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
18 la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
"Ecco Dite", dicendo, "ed ecco il loco
21 ove convien che di fortezza t’armi".
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
24 però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
27 qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
30 e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
33 ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
36 ben dee da lui proceder ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
39 L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
42 e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
45 vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
48 vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
51 sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
54 gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
57 sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
60 rimanea de la pelle tutta brulla.
"Quell’anima là sù c’ha maggior pena",
disse ’l maestro, "è Giuda Scarïotto,
63 che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
66 vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
69 è da partir, ché tutto avem veduto".
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
72 e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
75 tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
78 lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
81 sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.
"Attienti ben, ché per cotali scale",
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
84 "conviensi dipartir da tanto male".
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
87 appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
90 e vidili le gambe in sù tenere;
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
93 qual è quel punto ch’io avea passato.
"Lèvati sù", disse ’l maestro, "in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
96 e già il sole a mezza terza riede".
Non era camminata di palagio
là ’v’eravam, ma natural burella
99 ch’avea mal suolo e di lume disagio.
"Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio", diss’io quando fui dritto,
102 "a trarmi d’erro un poco mi favella:
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
105 da sera a mane ha fatto il sol tragitto?".
Ed elli a me: "Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
108 al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
111 al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
114 coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
117 che l’altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
120 fitto è ancora sì come prim’era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
123 per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
126 quella ch’appar di qua, e sù ricorse".
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
129 che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
132 col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
135 e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
138 che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

PARAFRASI
"Si avanzano i vessilli del re dell’inferno (le sei ali di Lucifero) verso di noi; guarda perciò davanti a te" disse Virgilio "se riesci a scorgerlo." Come quando una densa nebbia si diffonde, o quando il nostro emisfero si abbuia, appare da lontano un mulino la cui ruota è fatta girare dal vento, mi sembrò allora di vedere una tale macchina; poi, a causa del vento; mi rifugiai dietro a Virgilio, poiché non vi era altro riparo. Già mi trovavo, e con paura lo ricordo nei miei versi, là dove i dannati erano tutti coperti (dal ghiaccio), e trasparivano come un fuscello rimasto incorporato nel vetro. Alcuni stanno distesi; altri eretti, chi con la testa e chi cori i piedi in alto; altri, piegati all’indietro, raggiungono, a guisa di arco, col volto i piedi. Quando ci fummo inoltrati tanto, che Virgilio ritenne opportuno mostrarmi colui che era stato il più bello degli angeli, si scostò e mi fece fermare, dicendo: "Ecco Dite (è il nome di Plutone, re degli inferi, nella mitologia) ed ecco il luogo ove occorre che tu ti armi di coraggio ". Non chiedere, o lettore, quale gelo allora mi invase e come la voce mi si fermò, poiché non lo scrivo, ogni parola essendo inadeguata ad esprimerlo. Io non rimasi né vivo né morto: immagina ormai da solo, se appena hai un poco d’intelligenza, come divenni, privo sia di vita che di morte. Il sovrano dell’inferno sporgeva fuori dal ghiaccio a partire da metà del petto; e c’è più proporzione fra me e un gigante, che fra i giganti e le sue braccia: vedi ormai quanto deve essere grande l’intera massa di quel corpo perché sia proporzionato a simili braccia. Se fu così bello com’è brutto attualmente, e (ciononostante) si ribellò al suo Creatore, è ben naturale che ogni male derivi da lui. O come mi sembrò cosa degna di grande meraviglia vedere che la sua testa aveva tre facce! Una davanti, ed era rossa; delle altre due, che si congiungevano a questa sorgendo in corrispondenza della parte mediana di ciascuna spalla, e si congiungevano fra di loro nella parte mediana del volto dove alcuni uccelli hanno la cresta, la destra appariva di un colore tra il bianco e il giallo; la sinistra appariva di un colore simile a quello delle popolazioni originarie della regione da cui il Nilo scende a valle. Sotto ciascuna faccia sporgevano due grandi ali, proporzionate alle dimensioni di un così grande uccello: non vidi mai vele di imbarcazioni marine così grandi. Non avevano penne, ma il loro aspetto era quello delle ali del pipistrello; e le agitava, in modo che da lui si originavano tre venti: Per quel che riguarda le ali di Lucifero, il loro numero è uguale a quello delle ali dei serafini, gli angeli più vicini a Dio, ma, a differenza di quelle dei serafini, piumate e splendenti, quelle del sovrano dell’inferno sono prive di penne e nerastre. perciò l’intero Cocito era trasformato in ghiaccio. Piangeva con sei occhi, e su tre menti faceva gocciare lagrime miste a bava sanguigna. In ogni bocca frantumava con i denti un peccatore, come una gramola (maciulla: strumento che serve a tritare la canapa o il lino), in modo da tormentarne così tre. Per quello che era maciullato nella bocca anteriore il mordere di Lucifero era poca cosa rispetto al graffiare dei suoi artigli, tanto che a volte la sua schiena restava interamente priva di pelle. "Quel dannato lassù, che è sottoposto ad un maggiore tormento" disse Virgilio, " è Giuda Iscariota, il quale tiene la testa dentro la bocca di Lucifero e agita fuori di essa le gambe. Degli altri due, che hanno la testa rovesciata in basso, quello che pende dalla faccia di colore nero è Bruto, vedi come si divincola! e non emette lamento!; l’altro, che appare così muscoloso, è Cassio. Ma sta scendendo nuovamente la notte (i due poeti hanno dunque impiegato ventiquattro ore per percorrere tutto l’inferno), e ormai occorre allontanarci, poiché abbiamo veduto tutto (l’inferno). " Gli avvinsi il collo con le braccia secondo la sua volontà; ed egli scelse il momento ed il luogo opportuno; e quando le ali furono abbastanza aperte, si afferrò ai fianchi villosi: poi si calò di ciuffo in ciuffo nello spazio compreso tra il folto pelo e la superficie ghiacciata. Quando ci trovammo nel punto in cui la coscia si articola, proprio in corrispondenza della parte più grossa dell’anca (è la parte centrale del corpo di Lucifero e corrisponde al centro dell’universo), Virgilio, faticosamente ed affannosamente, si girò portando la testa in direzione dei piedi di Lucifero, e si aggrappò al pelo come chi sale, in modo che io credevo di tornare ancora nell’ inferno. "Tienti stretto, poiché per scale di tal genere" disse Virgilio, ansimando come un uomo stanco, " occorre allontanarsi dall’inferno. " Poi uscì attraverso l’apertura di una roccia, e mi fece sedere sull’orlo di essa; quindi diresse verso di me con cautela il suo passo (staccandosi così dal pelo di Lucifero). Volsi in alto lo sguardo. e pensai di vedere Lucifero nella posizione in cui lo avevo lasciato; e vidi invece che teneva le gambe rivolte in alto; e se io allora mi turbai, lo immagini la gente ignorante, che non comprende (come non avevo compreso io) quale è il punto che avevo oltrepassato (il centro della terra). " Alzati in piedi " disse Virgilio " poiché la via che dobbiamo percorrere è lunga e il cammino malagevole, e già il sole ritorna all’ora media (circa le sette e mezza del mattino) fra la prima ora canonica (corrisponde alle sei) e la terza (corrisponde alle nove). " Non ci trovavamo là in una sala di palazzo,, ma in un sotterraneo naturale che aveva il suolo irregolare e mancanza di luce. " Maestro, prima che io mi stacchi dall’inferno ", dissi quando fui in piedi, " parlami un poco per togliermi dal dubbio. Dov’è il ghiaccio? e come mai Lucifero vi è confitto così rovesciato? e come, in così breve tempo, il sole ha fatto il percorso dalla sera alla mattina? " Ed egli: " Tu ritieni di essere ancora dall’altra parte del centro della terra, là dove mi afferrai al pelo del maligno verme che perfora il mondo. Ti trovasti dall’altra parte per tutto il tempo durante il quale io scesi; allorché mi girai, oltrepassasti il punto (il centro della terra) verso il quale si portano da ogni direzione i pesi. E sei ora giunto sotto l’emisfero (australe) che è opposto a quello (boreale) che ricopre la terra emersa, e sotto il cui meridiano centrale (sotto ‘l cui colmo: a Gerusalemme, situata, secondo le credenze del Medioevo, al centro della terra emersa) fu ucciso l’uomo che nacque e visse senza peccato (Cristo) : tu poggi i piedi sulla piccola superficie che corrisponde nell’emisfero australe a quella costituita dalla Giudecca in quello boreale. Qui è mattina, quando nell’emisfero boreale è sera: e Lucifero, che col suo pelo ci servì come scala; è ancora confitto nella posizione nella quale si trovava prima. Dalla parte di questo emisfero precipitò dal cielo; e la terra, che prima della sua caduta emergeva in questo emisfero, per paura di lui (che precipitava) si ritrasse sotto il mare, ed emerse nel nostro emisfero; e forse la terra che è visibile (l’isola del purgatorio) da questa parte (nell’emisfero australe), per evitare il contatto con Lucifero (fermatosi nel centro della terra) lasciò qui un luogo vuoto (è la natural burella in cui i due poeti si trovano), e si spinse in alto". Vi è laggiù un luogo situato all’estremità del sotterraneo che avevamo percorso, lontano da Lucifero tanto quanto è lungo questo sotterraneo, riconoscibile non per mezzo della vista (a causa del buio), ma per il rumore di un piccolo ruscello che qui scende (si tratta verosimilmente del Leté, il corso d’acqua che nel paradiso terrestre, posto sulla sommità della montagna del purgatorio, toglie alle anime purganti, nel momento in cui si accingono a salire in cielo, la memoria dei loro peccati; in tal modo ogni traccia di peccato torna nell’inferno) attraverso l’apertura di una roccia, a esso scavata, col suo corso a spirale, e in lieve pendenza. Virgilio ed io ci avviammo per quella via nascosta (nel grembo della terra; è la via che conduce dall’estremità della natural burella alla superficie dell’ emisfero australe) per ritornare nel mondo luminoso; e senza curarci di interrompere il nostro cammino per riposare, salimmo, egli per primo e io dietro di lui, finché attraverso un foro rotondo vidi la luce degli astri: e attraverso questo foro uscimmo a rivedere il firmamento.

CANTO TRENTATREESIMO

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
3 del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
6 già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
9 parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
12 mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
15 or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
18 e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
21 udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
24 e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
27 che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
30 per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
33 s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
36 mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
39 ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
42 e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
45 e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
48 nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
51 disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
54 infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
57 per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
60 di manicar, di sùbito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
63 queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
66 ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
69 dicendo: "Padre mio, ché non m’aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
72 tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
75 Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno".
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
78 che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
81 poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
84 sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Ché se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
87 non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
90 e li altri due che ’l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
93 non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
96 si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
99 rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
102 cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: "Maestro mio, questo chi move?
105 non è qua giù ogne vapore spento?".
Ond’elli a me: "Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
108 veggendo la cagion che ’l fiato piove".
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: "O anime crudeli
111 tanto che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
114 un poco, pria che ’l pianto si raggeli".
Per ch’io a lui: "Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
117 al fondo de la ghiaccia ir mi convegna".
Rispuose adunque: "I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
120 che qui riprendo dattero per figo".
"Oh!", diss’io lui, "or se’ tu ancor morto?".
Ed elli a me: "Come ’l mio corpo stea
123 nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
126 innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
129 sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
132 mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
135 de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
138 poscia passati ch’el fu sì racchiuso".
"Io credo", diss’io lui, "che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
141 e mangia e bee e dorme e veste panni".
"Nel fosso sù", diss’el, "de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
144 non era ancor giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
147 che ’l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi". E io non gliel’apersi;
150 e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
153 perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
156 in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

PARAFRASI
Quel peccatore sollevò dal pasto feroce la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore. Poi incominciò a dire: "Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli. Ma se le mie parole devono essere causa d’infamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al tempo stesso parlare e piangere. Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù; ma quando ti odo parlare mi sembri davvero fiorentino. Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto. Non occorre che io racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendimenti malvagi; ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè come la mia morte fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi. Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le penne) che a causa mia è soprannominato torre della fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi, mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il sogno cattivo che mi svelò il futuro. Costui (l’ arcivescovo Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca. Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre principali famiglie ghibelline di Pisa) insieme con cagne fameliche (simbolo, secondo il Buti, del popolo minuto, "che comunemente è magro e povero"), sollecite a cacciare ed esperte. Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate. Quando fui sveglio prima dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli (Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino), che erano con me, e chiedere del pane. Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non piangi, per che cosa sei solito piangere? Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore; e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola. Io non piangevo, a tal punto l’animo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: "Tu guardi in modo così strano, padre! che hai ?" Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra alba. Non appena un po’ di luce riuscì a penetrare nella cella dolorosa, ed intravidi su quattro volti il mio stesso aspetto, mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in piedi, e dissero: "Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene". Allora mi quietai per non renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele, perché non ci inghiottisti? Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: "Padre, perché non m’ aiuti?" Morì lì; e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti: poi, più del dolore, ebbe potere su me il digiuno ". Ciò detto, con gli occhi biechi, afferrò nuovamente il misero cranio coi denti, i quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane. Ahi Pisa, onta dei popoli appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘1 sì sona: dove la lingua usa come particella affermativa il "sì"), dal momento che le città vicine tardano a punirti, si muovano la Capraia e la Gorgona (due isole del Tirreno, situate in corrispondenza della foce dell’Arno), e formino uno sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si versa nel mare, in modo che esso sommerga tutti i tuoi abitanti! Poiché se correva voce che il conte Ugolino ti aveva tradita riguardo ai castelli (ceduti a Lucca e a Firenze), non dovevi sottoporre ad un tale supplizio i suoi figli. La giovane età rendeva innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei delitti in te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai discendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli altri due che il mio canto ha menzionato in precedenza. Passammo oltre, là dove il ghiaccio avvolge duramente un’altra moltitudine, non immersa verticalmente, ma tutta quanta supina. Il pianto stesso in quel luogo non consente di piangere, e il dolore che trova sugli occhi un impedimento, rifluisce dentro ad aumentare l’angoscia, poiché le prime lagrime versate formano un nodo (di ghiaccio), e riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto le ciglia, come visiere di cristallo. E sebbene a causa del freddo ogni sensibilità avesse abbandonato la dimora del mio volto, così come accade per una parte callosa, mi sembrava già di sentire parecchio vento: per cui dissi: " Maestro, chi lo produce? non è qui inesistente ogni vapore (manca infatti il sole che possa formare e sollevare il vapore per produrre il vento)? " E Virgilio: " Presto sarai nel luogo in cui l’occhio, vedendo la causa (il movimento delle ali di Lucifero) che fa soffiare dall’alto il vento, risponderà alla tua domanda ". Ed uno degli sciagurati immersi nella lastra gelata ci gridò: " Anime a tal punto spietate, che vi è assegnata l’ultima dimora, toglietemi dal volto il ghiaccio, in modo che io possa sfogare un poco (attraverso le lagrime) il dolore che riempie il mio cuore, prima che il pianto geli nuovamente ". Onde io: " Se vuoi che ti aiuti (ti sovvegna), dimmi chi sei, e se non ti libero dall’impedimento (del ghiaccio), possa io scendere fino in fondo a Cocito ". Allora rispose: " Sono frate Alberigo; sono quello delle frutta delittuose, che qui sconto la mia colpa con una pena ancora più grave (il dattero è frutto più prelibato del fico)". " Oh! " gli dissi, " sei già morto? " Ed egli: " In quali condizioni si trovi il mio corpo nel mondo dei vivi, non so. Questa Tolomea ha il privilegio che spesso l’anima cade in essa prima che la morte (nella mitologia Atropos era quella delle tre Parche che recideva il filo della vita) le imprima il movimento. E perché più volentieri tu mi raschi dal volto le lagrime congelate, sappi che non appena l’anima tradisce nel modo usato da me, il suo corpo le è preso da un demonio, il quale poi lo governa finché sia trascorso tutto il tempo assegnatogli per vivere. Essa precipita in questo pozzo (il nono cerchio); e forse è ancora visibile nel mondo il corpo appartenente all’anima che qua dietro a me sverna. Tu lo devi sapere, se soltanto ora scendi nell’inferno: è ser Branca d’Oria, e vari anni sono trascorsi da quando è stato chiuso in tal modo (nel ghiaccio) ". "Credo" gli dissi " che tu m’inganni; poiché Branca d’Oria non è ancora morto, è vivo e sano. " " Nella bolgia" disse " custodita dai Malebranche, dove la pece vischiosa ribolle, non era ancora arrivato Michele Zanche che costui lasciò nel corpo al posto suo un diavolo, ed altrettanto fece un suo parente che compì il tradimento insieme con lui. Ma stendi ormai la mano verso di me; aprimi gli occhi. " E io non glieli apersi; e fu atto nobile essere villano nei suoi confronti. Ahi Genovesi, uomini lontani da ogni buona usanza e pieni d’ogni vizio, perché non siete estirpati dal mondo? Poiché insieme con l’anima più perversa della Romagna (frate Alberigo) trovai un vostro concittadino tale, che a causa delle sue azioni già sta immerso con l’anima nel Cocito, e col corpo appare ancora vivente sulla terra.

CANTO TRENTADUESIMO

S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
3 sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
6 non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
9 né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
12 sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
15 mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
18 e io mirava ancora a l’alto muro,
dicere udi’mi: "Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
21 le teste de’ fratei miseri lassi".
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
24 avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
27 né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
30 non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
33 di spigolar sovente la villana;
livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
36 mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
39 tra lor testimonianza si procaccia.
Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
42 che ’l pel del capo avieno insieme misto.
"Ditemi, voi che sì strignete i petti",
diss’io, "chi siete?". E quei piegaro i colli;
45 e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
48 le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
51 cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
54 disse: "Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
57 del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
60 degna più d’esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
63 non Focaccia; non questi che m’ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
66 se tosco se’, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
69 e aspetto Carlin che mi scagioni".
Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
72 e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
75 e io tremava ne l’etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
78 forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: "Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
81 di Montaperti, perché mi moleste?".
E io: "Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
84 poi mi farai, quantunque vorrai, fretta".
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
87 "Qual se’ tu che così rampogni altrui?".
"Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo", rispuose, "altrui le gote,
90 sì che, se fossi vivo, troppo fora?".
"Vivo son io, e caro esser ti puote",
fu mia risposta, "se dimandi fama,
93 ch’io metta il nome tuo tra l’altre note".
Ed elli a me: "Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
96 ché mal sai lusingar per questa lama!".
Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: "El converrà che tu ti nomi,
99 o che capel qui sù non ti rimagna".
Ond’elli a me: "Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
102 se mille fiate in sul capo mi tomi".
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien’avea più d’una ciocca,
105 latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro gridò: "Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
108 se tu non latri? qual diavol ti tocca?".
"Omai", diss’io, "non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
111 io porterò di te vere novelle".
"Va via", rispuose, "e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
114 di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
El piange qui l’argento de’ Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
117 là dove i peccatori stanno freschi".
Se fossi domandato "Altri chi v’era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
120 di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
123 ch’aprì Faenza quando si dormia".
Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
126 sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
129 là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
132 che quei faceva il teschio e l’altre cose.
"O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
135 dimmi ’l perché", diss’io, "per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
138 nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca".

PARAFRASI
Se i miei versi fossero aspri e striduli in misura adeguata al malvagio cerchio sopra il quale premono tutte le altre rocce, io esprimerei più compiutamente la sostanza dei mio pensiero; ma dal momento che non dispongo di tali versi, non senza timore mi accingo a parlare; poiché non è un’impresa da prendere alla leggiera descrivere il centro di tutto l’universo (nel sistema tolemaico il centro della terra coincide con il centro dell’universo; esso, nel mondo immaginato da Dante, è occupato da Lucifero, che si trova nel punto centrale dei nono cerchio), né tale da essere espressa da una lingua infantile ma soccorrano il mio poetare le Muse che aiutarono Anfione a cingere Tebe di mura, in modo che le mie parole non si allontanino dalla realtà. O anime più delle altre sciagurate che state nel luogo del quale è arduo parlare, meglio per voi se nel mondo foste state pecore o capre! Non appena fummo in fondo al buio pozzo assai più in basso dei piedi del gigante (poiché la superficie ghiacciata di Cocito è inclinata verso il suo centro e Anteo ha deposto i due pellegrini ad una certa distanza da sé, questi si trovano in un luogo più basso di quello ove il gigante poggia i piedi), e io guardavo ancora l’alta parete (del pozzo), udii dirmi: " Fai attenzione a come cammini; avanza, in modo da non calpestare con i piedi le teste degli infelici fratelli doloranti (di noi, che fummo uomini come te, e quindi siamo tuoi fratelli) ". Perciò mi volsi, e vidi stendersi davanti a me e sotto i miei piedi un lago che sembrava di vetro e non d’acqua. Il Danubio in Austria (la Danoia in Osterlicchi), o il Don sotto il freddo cielo boreale non formano durante l’inverno una crosta di ghiaccio così spessa, sullo scorrere delle loro acque, come quella che si trovava in quel posto; infatti se il monte Tambura, o la Pania della Croce (due montagne delle Alpi Apuane) vi fossero caduti sopra, non avrebbe scricchiolato nemmeno dalla parte dei margine (dove lo spessore del ghiaccio è minore). E come la rana sta a gracidare col muso fuori dell’acqua, nel periodo estivo, quando la contadina sogna spesso di raccogliere il grano, allo stesso modo, livide, le ombre dei dannati erano confitte nel ghiaccio fino al punto nel quale la vergogna si manifesta (solo il viso sporgeva cioè dalla superficie ghiacciata), emettendo, col battere dei denti, un suono simile a quello prodotto dalle cicogne. Ognuna teneva il volto abbassato: in loro il freddo è attestato dalla bocca (attraverso il battere dei denti), e il dolore dagli occhi. Dopo essermi alquanto guardato intorno, rivolsi lo sguardo ai miei piedi, e vidi due così vicini, che avevano i capelli mescolati insieme. " Ditemi, voi che così strettamente siete abbracciati ", dissi, " chi siete? " E quelli alzarono la testa; e dopo che ebbero levato lo sguardo verso di me, i loro occhi, che prima erano bagnati dalle lagrime soltanto all’interno, le lasciarono cadere fino alle labbra, e il gelo le trasformò in ghiaccio fra loro e li strinse l’uno all’altro. Una spranga di ferro non tenne mai così fortemente unito un pezzo di legno ad un altro pezzo di legno; per cui essi come due arieti cozzarono l’uno contro l’altro, tanta fu l’ira che li sopraffece. Ed uno di loro che a causa del freddo aveva perduto entrambi gli orecchi, continuando a tenere il viso abbassato, disse: " Perché ci fissi tanto intensamente ? Se vuoi apprendere chi sono questi due, sappi che la valle attraverso la quale scende il fiume Bisenzio appartenne al loro padre Alberto ed a loro. Furono generati da una medesima madre; e potrai cercare per tutta la Caina, senza trovare un dannato più meritevole di essere confitto nel ghiaccio; non colui del quale, per mano di Artù, il petto e l’ombra furono trafitti da un solo colpo di lancia; non Focaccia; non costui che mi ostruisce la vista con la sua testa, in modo che io non riesco a vedere più in là, ed ebbe nome Sassolo Mascheroni: se sei toscano, sai bene ormai di chi parlo. Focaccia è il soprannome del pistoiese di parte bianca Vanni dei Cancellieri, reo di aver ucciso proditoriamente il cugino Detto dei Cancellieri. E perché tu non mi faccia più oltre parlare, sappi che fui Camicione dei Pazzi; e aspetto Carlino che mi faccia apparire meno colpevole ". Poi vidi un’infinità di volti resi paonazzi dal freddo; per cui sento un brivido, e lo sentirò sempre, al pensiero degli stagni ghiacciati. E mentre avanzavamo in direzione del centro (della terra e dell’universo) verso il quale ogni peso converge, e io tremavo nella gelida ombra eterna, se lo feci deliberatamente o per volontà di Dio o per caso, non so; ma, mentre passeggiavo fra le teste, colpii violentemente col piede una di queste nel volto. Piangendo mi rimproverò: " Perché mi percuoti? se tu non vieni ad accrescere la punizione assegnatami a causa di Montaperti, perché mi tormenti? " Ed io: "Maestro, aspettami ora qui, in modo che io chiarisca un mio dubbio per mezzo di costui; poi mi farai affrettare quanto vorrai ". Virgilio si fermò, e io dissi a quello che continuava ad imprecare aspramente: "Chi sei tu che mi rimproveri in modo così violento? " " Di’ tu piuttosto chi sei che cammini per l’Antenora colpendo " rispose "le guance a me, in modo che, se io fossi vivo, la tua sarebbe un’offesa troppo grave (cioè: saprei vendicarmi)? ". " Son io che sono vivo, e ti può essere gradito " risposi, " se desideri fama, che io registri il tuo nome tra le altre cose che ricorderò. " Ed egli: " Desidero proprio l’opposto; va via di qua e non mi dare più fastidio, perché senza risultato usi le tue lusinghe in questa bassura! " Allora lo afferrai per la collottola, e dissi: " Occorrerà che tu dica il tuo nome, o che nemmeno un capello rimanga sulla tua testa". Per cui egli: "Per il fatto che tu mi strappi i capelli, né ti dirò chi sono, né te lo rivelerò, se anche tu mi cada sulla testa mille volte ". lo avevo già afferrato e attorcigliato i suoi capelli, e gliene avevo strappati più di una ciocca, mentre egli latrava con gli occhi ostinatamente volti in basso, allorché un altro gridò: " Che ti prende, Bocca? non ti basta battere i denti? hai bisogno anche di latrare? quale diavolo ha messo la mano su di te? " " Ormai " dissi " non ho più bisogno che tu parli, perverso traditore; ìnfatti, per aumenta. re la tua vergogna, io porterò notizie vere sul tuo conto. " " Vattene " rispose, " e racconta ciò che vuoi; ma non tralasciare, se potrai uscire di qui, di menzionare colui che poco fa è stato così pronto a parlare. Egli è punito qui per il denaro ricevuto dai Francesi: "Io vidi" potrai dire "quello di Dovera là dove i dannati soffrono il freddo ". Se ti venisse chiesto "Chi altro c’era?", sappi che accanto a te si trova quello dei Beccaria al quale Firenze tagliò il collo. Credo che più in là sì trovi Gianni dei Soldanieri con Gano e Tebaldello, che aprì le porte di Faenza di notte. " Ci eravamo già allontanati da lui, quando vidi in una sola buca sepolti nel ghiaccio due dannati, in modo che la testa dell’uno faceva da cappello a quella dell’altro; e con la stessa avidità con cui l’affamato mangia il pane, così quello che stava di sopra aveva conficcato i denti nell’altro nel punto in cui il cervello si congiunge al midollo spinale: non diversamente Tideo rose per odio il capo di Menalippo, da come quel dannato rodeva il cranio e il cervello. "O tu che manifesti attraverso un atto così bestiale il tuo odio verso colui che stai divorando, dimmene il motivo" dissi, "a questo patto, che se tu giustamente ti duoli di lui, sapendo chi siete e la sua colpa, su nel mondo io ti possa ricompensare, se quella lingua con la quale io parlo non si inaridirà.".

CANTO TRENTUNESIMO

Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
3 e poi la medicina mi riporse;
così od’io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
6 prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
9 attraversando sanza alcun sermone.
Quiv’era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
12 ma io senti’ sonare un alto corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
15 dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
18 non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
21 ond’io: "Maestro, di’, che terra è questa?".
Ed elli a me: "Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
24 avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
27 però alquanto più te stesso pungi".
Poi caramente mi prese per mano
e disse: "Pria che noi siamo più avanti,
30 acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
33 da l’umbilico in giuso tutti quanti".
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
36 ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,
così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
39 fuggiemi errore e cresciemi paura;
però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
42 così la proda che ’l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
45 Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
48 e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
51 per tòrre tali essecutori a Marte.
E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
54 più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
57 nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
60 e a sua proporzione eran l’altre ossa;
sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
63 di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
66 dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto.
"Raphél maì amècche zabì almi",
cominciò a gridar la fiera bocca,
69 cui non si convenia più dolci salmi.
E ’l duca mio ver’ lui: "Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
72 quand’ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
75 e vedi lui che ’l gran petto ti doga".
Poi disse a me: "Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
78 pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
81 come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto".
Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro,
84 trovammo l’altro assai più fero e maggio.
A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
87 dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
90 si ravvolgëa infino al giro quinto.
"Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove",
93 disse ’l mio duca, "ond’elli ha cotal merto.
Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
96 le braccia ch’el menò, già mai non move".
E io a lui: "S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
99 esperïenza avesser li occhi miei".
Ond’ei rispuose: "Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
102 che ne porrà nel fondo d’ogne reo.
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
105 salvo che più feroce par nel volto".
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
108 come Fïalte a scuotersi fu presto.
Allor temett’io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
111 s’io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
114 sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
"O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipion di gloria reda,
117 quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
120 de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
123 dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
126 però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
129 se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama".
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
132 ond’Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: "Fatti qua, sì ch’io ti prenda";
135 poi fece sì ch’un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
138 sovr’essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
141 ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
144 né, sì chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò.

PARAFRASI
Una stessa lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò, in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto: così sento dIre che la lancia di Achille e di Peleo soleva essere causa in un primo tempo di una offerta dolorosa e in un secondo tempo di una offerta buona. Noi voltammo le spalle alla decima bolgia lungo !’argine che la circonda, attraversandolo senza parlare. Qui era meno buio ché di notte e meno chiaro che di giorno, così che la mia vista si spingeva avanti di poco; ma udii un corno dal suono così fragoroso, che avrebbe fatto sembrare debole qualunque tuono, il quale suono, continuando a percorrere il suo cammino, fece rivolgere attentamente la mia vista verso un unico punto in direzione opposta a quella da cui proveniva. Dopo la grave disfatta, quando Carlo Magno perdette i paladini della fede, non suonò in modo così terribile Orlando. Avevo per poco tempo tenuto la testa volta in quella direzione, allorché mi sembrò di scorgere numerose alte torri; per cui dissi: "Maestro, dimmi, che città è questa? " E Virgilio a me: " Poiché tu ti spingi con lo sguardo attraverso il buio troppo da lontano, accade poi che tu confonda nel raffigurarti ciò che vedi. Tu vedrai bene, se arriverai in quel luogo, quanto il senso (della vista) possa errare da lontano; perciò sprona maggiormente te stesso". Poi mi prese affettuosamente per mano, e disse: " Prima che noi giungiamo più innanzi, affinché la cosa ti appaia meno sorprendente, devi sapere che non sono torri, bensì giganti, e che stanno tutti nel pozzo lungo la sua parete circolare dall’ombelico in giù ". Come quando la nebbia si dissolve, l’occhio gradatamente distingue quello che nasconde il vapore che rende densa l’aria, così, penetrando con lo sguardo nell’aria spessa e buia, a mano a mano che mi avvicinavo all’orlo del pozzo, si dileguava il mio errore e aumentava la mia paura; poiché come il castello di Montereggioni è cinto di torri nella cerchia delle mura che lo circondano, così la sponda che gira intorno al pozzo soverchiavano come torri con metà del loro corpo i mostruosi giganti, che Giove sembra ancora minacciare col tuono dal cielo. E io già di uno di costoro intravedevo il viso, le spalle e il petto e gran parte del ventre, e le due braccia abbandonate lungo i fianchi. Certamente la natura, quando smise di produrre simili esseri viventi, fece cosa molto buona, perché sottrasse a Marte (il dio della guerra) tali esecutori (delle sue volontà). E se la natura non si pente degli elefanti e delle balene. chi riflette con attenzione, la giudica per questo più giusta e più assennata; poiché nei casi in cui lo strumento della ragione si aggiunge alla volontà di nuocere e alla forza fisica, gli uomini non possono opporre alcuna difesa. La faccia di quel gigante mi sembrava lunga, e grossa come la pigna di San Pietro in Roma (questa figura di bronzo ai tempi di Dante si trovava nell’atrio di San Pietro; oggi invece è all’interno del Vaticano, nel cortile detto della, Pigna), e le altre membra erano proporzionate ad essa; così che la sponda, che gli serviva da veste dalla metà del corpo in giù, lasciava vedere tanto della parte superiore del suo corpo, che di arrivargli ai capelli tre abitanti della Frisia (rinomati per la loro alta statura) difficilmente avrebbero potuto vantarsi; poiché ne scorgevo trenta palmi (poco più di sette metri) abbondanti dal collo in giù. "Raphél may améch zabi almì" cominciò a gridare la mostruosa bocca, alla quale non si addicevano discorsi più gradevoli. E Virgilio, rivolgendosi a lui: " Spirito sciocco, accontentati del corno, e sfogati con quello quando ti prende l’ira o un’altra passione! Cerca intorno al tuo collo, e troverai la cinghia che lo tiene legato, o anima ottenebrata, e guardalo come attraversa il tuo petto possente ". Poi mi disse: " Da solo rivela chi egli sia; costui è Nembrot per il cui empio pensiero nel mondo non si usa più un unico linguaggio. Lasciamolo stare e non parliamo inutilmente; perché per lui ogni linguaggio è tale (così: cioè incomprensibile) come per altri è il suo, che non è conosciuto da nessuno. Percorremmo dunque un più lungo cammino, diretti verso sinistra; ed a un tiro di balestra incontrammo l’altro (gigante) molto più crudele nell’aspetto e più grande. Chi fosse l’artefice che lo legò, non so dire, ma egli aveva piegato davanti il braccio sinistro e dietro il braccio destro per mezzo di una catena che lo teneva legato dal collo in giù, in modo che essa gli si avvolgeva intorno per cinque giri nella parte visibile del corpo. "Questo superbo volle sperimentare la sua forza contro l’altissimo Giove " disse Virgilio, " per cui ha una simile ricompensa. Il suo nome è Fialte, e mostrò la sua grande forza al tempo in cui i giganti fecero paura agli dei: ora non muove. più le braccia che egli mosse. " E io a lui: "Se fosse possibile, vorrei che i miei occhi vedessero l’ immane Briareo", Per cui Virgilio rispose: " Tu vedrai qui vicino Anteo, che sa esprimersi e non è legato, il quale ci deporrà sul fondo dell’inferno. Quello che tu vuoi vedere é molto più distante, ed è incatenato e ha la stessa corporatura di Fialte, tranne che appare più terribile nel volto ". Mai vi fu terremoto tanto violento, che scuotesse una torre con lo stesso impeto con il quale fu pronto a scuotersi Fialte. Allora più che mai ebbi paura della morte, e non vi sarebbe stato bisogno d’altro oltre la paura (perché io morissi), se non avessi veduto le catene. Allora proseguimmo nel nostro cammino, e giungemmo presso Anteo, che sovrastava la parete rocciosa di oltre sei metri, se non si teneva conto della testa. "O tu che nella fortunosa valle che fece Scipione erede di gloria, quando Annibale fu volto in fuga col suo esercito, portasti un giorno innumerevoli leoni catturati, e che se avessi preso parte alla grande guerra dei tuoi fratelli, ancora vi è chi potrebbe credere che avrebbero vinto i giganti (i figli della terra), deponici, e non sdegnare di farlo, dove il freddo congela le acque di Cocito. Non ci fare andare né da Tizio né da Tifo (il primo di questi due giganti fu fulminato da Apollo per aver tentato di sedurre Latona, il secondo da Giove): il mio compagno può darti ciò che nell’inferno è desiderato (la fama tra i vivi); perciò abbassati, e non volgere altrove il viso. Egli ti può ancora dare, gloria nel mondo. poiché egli vive, e attende ancora di vivere a lungo se la grazia divina non lo chiama a sé prima dei tempo. " Così parlò Virgilio; e Anteo stese sollecito le mani, di cui Ercole aveva sentito una volta la stretta poderosa, e afferrò la mia guida. Virgilio, quando si sentì afferrare, mi disse: "Avvicinati, così che io possa prenderti"; poi fece in modo che egli ed io formassimo un solo fascio. Come appare la Garisenda (la minore delle due famose torri di Bologna) quando la si guarda dalla parte in cui è inclinata, allorché una nuvola passa sopra ad essa, in direzione contraria alla sua pendenza (sì, che ella incontro penda: sembra allora che la nuvola sia ferma e la torre stia per piombare a terra), così apparve Anteo a me che facevo attenzione per vederlo nell’atto del suo piegarsi, e fu un momento tale che avrei voluto andare per un’altra strada. Ma dolcemente ci depose sul fondo che imprigiona Lucifero e Giuda; né, così chinato, lì indugiò, ma si levò diritto come in una nave l’ albero.

CANTO TRENTESIMO

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
3 come mostrò una e altra fïata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
6 andar carcata da ciascuna mano,
gridò: "Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco";
9 e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
12 e quella s’annegò con l’altro carco.
E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
15 sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
18 e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
21 tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
24 non punger bestie, nonché membra umane,
quant’io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
27 che ’l porco quando del porcil si schiude.
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
30 grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: "Quel folletto è Gianni Schicchi,
33 e va rabbioso altrui così conciando".
"Oh!", diss’io lui, "se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
36 a dir chi è, pria che di qui si spicchi".
Ed elli a me: "Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
39 al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
42 come l’altro che là sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
45 testando e dando al testamento norma".
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
48 rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
51 tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
54 che ’l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
57 l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.
"O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo",
60 diss’elli a noi, "guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
63 e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.
Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
66 faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
69 che ’l male ond’io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
72 a metter più li miei sospiri in fuga.
Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
75 per ch’io il corpo sù arso lasciai.
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
78 per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
81 ma che mi val, c’ho le membra legate?
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
84 io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
87 e men d’un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
90 ch’avevan tre carati di mondiglia".
E io a lui: "Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
93 giacendo stretti a’ tuoi destri confini?".
"Qui li trovai - e poi volta non dierno - ",
rispuose, "quando piovvi in questo greppo,
96 e non credo che dieno in sempiterno.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
99 per febbre aguta gittan tanto leppo".
E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
102 col pugno li percosse l’epa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
105 col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: "Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
108 ho io il braccio a tal mestiere sciolto".
Ond’ei rispuose: "Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
111 ma sì e più l’avei quando coniavi".
E l’idropico: "Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
114 là ’ve del ver fosti a Troia richesto".
"S’io dissi falso, e tu falsasti il conio",
disse Sinon; "e son qui per un fallo,
117 e tu per più ch’alcun altro demonio!".
"Ricorditi, spergiuro, del cavallo",
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
120 "e sieti reo che tutto il mondo sallo!".
"E te sia rea la sete onde ti crepa",
disse ’l Greco, "la lingua, e l’acqua marcia
123 che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!".
Allora il monetier: "Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
126 ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
129 non vorresti a ’nvitar molte parole".
Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: "Or pur mira,
132 che per poco che teco non mi risso!".
Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
135 ch’ancor per la memoria mi si gira.
Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
138 sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,
tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
141 me tuttavia, e nol mi credea fare.
"Maggior difetto men vergogna lava",
disse ’l maestro, "che ’l tuo non è stato;
144 però d’ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
147 dove sien genti in simigliante piato:
ché voler ciò udire è bassa voglia".

PARAFRASI
Nel tempo in cui Giunone era adirata a causa di Semele contro la stirpe tebana, come dimostrò più volte, Atamante impazzì a tal punto che, vedendo la moglie camminare con i due figli in braccio, gridò. " Tendiamo le reti, così ch’io possa catturare mentre passa la leonessa e i suoi leoncini "; poi protese i crudeli artigli, afferrando il figlio che si chiamava Learco, e lo roteò per l’aria e lo scagliò con forza contro una roccia;. e la madre si gettò in mare, annegando con l’altro figlio che portava in braccio. E quando la fortuna abbatté la superbia dei Troiani che osava ogni cosa, di modo che il re (Priamo) fu distrutto col suo regno, Ecuba addolorata, infelice e prigioniera, dopo che vide Polissena morta, e del corpo del suo Polidoro sulla riva del mare (in Tracia, dove Polidoro era stato ucciso dal re Polinestore) piena di angoscia si accorse, fuor di senno latrò come un cane; a tal punto il dolore le sconvolse la mente. Ma non si videro mai furie tebane o troiane slanciarsi con tanta crudeltà contro qualcuno, né colpire animali, né tanto meno esseri umani. come io vidi slanciarsi due anime pallide e nude, che, dando morsi, correvano come fa il maiale quando esce fuori dal porcile, L’una raggiunse Capocchio, e l’azzannò alla nuca, così che, trascinandolo per terra, gli fece grattare il ventre sul duro terreno. E l’Aretino, che restò lì, tremante di paura, mi disse. "Quello spiritello è Gianni Schicchi, e va rabbiosamente riducendo in questo stato gli altri". " Oh! " gli dissi, " augurandoti che quell’altro spiritello non ti addenti, non ti dispiaccia dirmi chi esso sia prima che si allontani di qui " Mi rispose: " Quello è l’antico spirito della sciagurata Mirra, che diventò contro ogni lecito amore la amante del padre. Costei giunse a peccare con quello, mutando le proprie sembianze in quelle di un’altra, così come Gianni Schicchi che là cammina, osò, per prendersi la cavalla migliore della mandria, fingersi Buoso Donati, facendo testamento e dando a questo testamento valore, legale ". E dopo che i due furenti sui quali avevo soffermato lo sguardo, passarono oltre, rivolsi l’attenzione agli altri sventurati. Ne vidi uno, simile a un liuto, se soltanto avesse avuto l’ inguine separato dalle gambe. La pesante idropisia, la quale deforma a tal punto le membra a causa degli umori naturali che non riesce ad assimilare, che la faccia non é proporzionata al ventre, gli faceva tenere le labbra aperte come fa il tisico, che per la sete rivolta un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. " O voi che vi trovate nel mondo del dolore senza alcuna pena, e non ne conosco la ragione ", ci disse quello, " osservate e fate attenzione all’infelicità del maestro Adamo: io ebbi, da vivo, tutto ciò che desiderai, e ora misero me! ardentemente desidero una sola goccia di acqua. i piccoli ruscelli che dai verdi colli del Casentino scendono giù nell’Arno, rendendo freschi e umidi i loro alvei, mi sono sempre davanti agli occhi, e non invano, poiché il ricordo che ho di essi m’inaridisce ben più che il male a causa del quale mi assottiglio nel volto. L’inflessibile, giustizia che mi tormenta trae motivo dal luogo dove io peccai per farmi emettere più frequenti sospiri. Lì si trova Romena, dove falsificai la moneta che porta impressa l’immagine di San Giovanni Battista (il fiorino di Firenze); per questo abbandonai sulla terra il mio corpo bruciato. Ma se mi fosse concesso di vedere qui l’anima malvagia di Guido (Guido Il dei conti Guidi) o di Alessandro o dei loro fratello (Aghinolfo o Ildebrandino), non cambierei tale vista con (tutta l’acqua di) fonte Branda (la celebre fontana senese o, secondo alcuni, una fonte nei pressi di Romena). In questa bolgia si trova già una (di queste anime), se gli spiriti rabbiosi che s’aggirano qui intorno dicono la verità; ma a che mi giova, dal momento che non posso muovermi ? Se io fossi ancora agile soltanto quanto basta per percorrere un’oncia (circa due centimetri e mezzo) in cent’anni, mi sarei messo gia in cammino, cercandolo in questa moltitudine deforme, nonostante che la bolgia abbia una circonferenza di undici miglia, e non sia larga meno di mezzo miglio. Per causa loro mi trovo in tale compagnia: essi mi costrinsero a coniare i fiorini che avevano tre carati di metallo vile. " E io a lui: "Chi sono i due infelici che fumano come d’inverno una mano bagnata, giacendo accostati l’uno all’altro alla tua destra? " " Li trovai qui " rispose, " quando caddi in questo precipizio, e da allora non si sono più mossi, né credo che si muoveranno mai più. Una di quelle anime è la bugiarda che accusò Giuseppe; l’altra è il menzognero Sinone, il greco che ingannò i Troiani: emanano tanto puzzo di untume bruciato a causa della febbre ardente. " E uno di loro, che s’ebbe a male forse d’essere menzionato con tanto disonore, gli colpì col pugno il teso ventre. Quello risuonò come fosse stato un tamburo; e maestro Adamo gli colpì la faccia col suo braccio, che non sembrò meno duro (del pugno di Sinone), dicendogli: " Anche se non posso muovermi a causa delle membra che sono pesanti, ho il braccio agile per colpire ". Allora l’altro rispose: "Quando tu .andavi al rogo, non l’avevi tanto pronto (cioè: eri legato): ma così pronto e anche di più l’avevi quando coniavi le monete false ". E l’idropico: " In ciò tu dici il vero; ma non fosti altrettanto verace testimonio quando a Troia ti chiesero la verità (a proposito del cavallo di legno) ". " Se io dissi il falso, ebbene tu hai falsificato il denaro " disse Sinone; " e se io sono qui per una sola colpa, tu, invece (ti trovi qui) per aver commesso più colpe (ogni fiorino, da te falsificato, è una colpa) che qualsiasi altro dannato! " "Ricordati, o spergiuro, del cavallo " rispose quello che aveva la pancia gonfia; " e ti sia motivo d’amarezza che tutti lo sappiano! " " E a te sia motivo d’amarezza la sete che ti screpola la lingua " disse il greco " e gli umori putridi che gonfiano il tuo ventre a tal punto da trasformarlo in una siepe che t’impedisce la vista! " E quello delle monete. " In modo non diverso ti si lacera la bocca a causa della tua malattia (che ti costringe a tenerla spalancata), come al solito; poiché se io ho sete e l’idropisia mi gonfia, tu hai il bruciore e il mai di testa; e per leccare lo specchio in cui Narciso affogò (cioè l’acqua; Narciso è il mitico giovane che si invaghì della propria immagine riflessa in uno stagno e che, volendo afferrarla, annegò), non chiederesti di essere invitato con molte parole ". Ero tutto intento ad ascoltarli, quando Virgilio mi disse: " Continua pure a guardare! manca poco infatti che io non venga a lite con te ". Allorché udii che mi parlava con ira, mi volsi verso di lui con tale vergogna, che ancora ne serbo un vivo ricordo. Non diversamente da chi sogna di ricevere un danno, il quale mentre sogna desidera che il suo sia soltanto un sogno, per cui aspira a ciò che è (il sogno, che è reale, in quanto sta realmente sognando), come se non fosse, mi comportai, non essendo capace di parlare, io che desideravo scusarmi, e di fatto mi scusavo (proprio per il fatto che la vergogna mi impediva di esprimermi), e non ne ero consapevole. "Una vergogna minore (di quella che stai provando) cancella una colpa maggiore di quanto non sia stata la tua" disse Virgilio; " liberati pertanto da ogni afflizione. E fa. conto che io mi trovi sempre al tuo fianco, se mai debba ancora accadere che le circostanze, ti facciano capitare in luoghi dove siano persone impegnate in un tal genere di contesa: poiché è un desiderio meschino voler ascoltare simili alterchi. "

CANTO VENTINOVESIMO

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
3 che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: "Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
6 là giù tra l’ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
9 che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
12 e altro è da veder che tu non vedi".
"Se tu avessi", rispuos’io appresso,
"atteso a la cagion perch’io guardava,
15 forse m’avresti ancor lo star dimesso".
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
18 e soggiugnendo: "Dentro a quella cava
dov’io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
21 la colpa che là giù cotanto costa".
Allor disse ’l maestro: "Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
24 Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
27 e udi’ ’l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
30 che non guardasti in là, sì fu partito".
"O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor", diss’io,
33 "per alcun che de l’onta sia consorte,
fece lui disdegnoso; ond’el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ïo estimo:
36 e in ciò m’ha el fatto a sé più pio".
Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
39 se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
42 potean parere a la veduta nostra,
lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
45 ond’io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor fora, se de li spedali,
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
48 e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
51 qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
54 e allor fu la mia vista più viva
giù ver’ lo fondo, la ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
57 punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
60 quando fu l’aere sì pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
63 secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
66 languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
69 si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
72 che non potean levar le lor persone.
Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
75 dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
78 né a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
81 del pizzicor, che non ha più soccorso;
e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
84 o d’altro pesce che più larghe l’abbia.
"O tu che con le dita ti dismaglie",
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
87 "e che fai d’esse talvolta tanaglie,
dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
90 etternalmente a cotesto lavoro".
"Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue", rispuose l’un piangendo;
93 "ma tu chi se’ che di noi dimandasti?".
E ’l duca disse: "I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
96 e di mostrar lo ’nferno a lui intendo".
Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
99 con altri che l’udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: "Dì a lor ciò che tu vuoli";
102 e io incominciai, poscia ch’ei volse:
"Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
105 ma s’ella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
108 di palesarvi a me non vi spaventi".
"Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena",
rispuose l’un, "mi fé mettere al foco;
111 ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.
Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
"I’ mi saprei levar per l’aere a volo";
114 e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,
volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
117 ardere a tal che l’avea per figliuolo.
Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
120 dannò Minòs, a cui fallar non lece".
E io dissi al poeta: "Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
123 Certo non la francesca sì d’assai!".
Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: "Tra’mene Stricca
126 che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
129 ne l’orto dove tal seme s’appicca;
e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
132 e l’Abbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
135 sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
138 e te dee ricordar, se ben t’adocchio,
com’io fui di natura buona scimia".

PARAFRASI
Gli innumerevoli peccatori e le mostruose ferite avevano riempito d’orrore a tal punto i miei occhi, che questi erano desiderosi di piangere; ma Virgilio mi disse: " Che cosa scruti con tanta insistenza ? perché il tuo sguardo si posa ancora laggiù in mezzo alle abiette anime mutilate ? Non hai fatto così nelle altre bolge: se tu pretendi di contare le anime, pensa che la bolgia ha una circonferenza di ventidue miglia. E la luna è già sotto di, noi (agli antipodi di Gerusalemme: sono all’incirca le ore tredici): ormai il tempo concessoci è breve (dovendo i due poeti percorrere l’ itinerario infernale in non più di ventiquattro ore ed essendone trascorse diciotto, restano loro soltanto sei ore per concludere il viaggio tra i dannati), e sono da vedere cose diverse da quelle che staì guardando". "Se tu avessi" gli risposi subito io " fatto attenzione al motivo per cui guardavo, forse mi avresti concesso di fermarmi ancora." Intanto Virgilio si avviava, e io lo seguivo. già dandogli la risposta. e soggiungendo: " Dentro quella bolgia dove io poco fa avevo lo sguardo così fisso, credo che uno spirito della mia famiglia sconti con dolore il peccato che laggiù sì paga così atrocemente ". Disse allora Virgilio: " D’ora in poi non pensare più a lui: poni mente ad altre cose, ed egli resti là; giacché io lo vidi alla base del ponticello mentre ti indicava (agli altri dannati), e proferiva aspre minacce agitando il dito, e udii che lo chiamavano Geri del Bello. Tu eri allora così completamente occupato a guardare il signore di Hautefort (colui che già tenne Altaforte: Bertran de Born), che non volgesti lo sguardo in quella direzione, finché quello (Geri) non se ne fu andato ". " O mio signore, la sua morte violenta che non è stata ancora vendicata " dissi " da alcuno che (per vincolo di sangue) sia partecipe dell’ingiuria subìta, lo riempie di sdegno; per cui egli, come io penso, si allontanò senza rivolgermi la parola: proprio per ciò mi ha reso più pietoso verso di lui. " Così discorremmo finché si giunse in quella parte del ponte dalla quale per la prima volta l’altra bolgia sarebbe visibile, se vi fosse più luce, interamente, fino in fondo. Allorché giungemmo sopra l’ultima fossa circolare di Malebolge, così che i dannati, che vi erano dentro potevano mostrarsi alla nostra vista, mi colpirono terribili lamenti, penetranti come frecce dalle punte armate di dolore; per cui mi coprii le orecchie con le mani. Quale sarebbe il dolore, se le malattie degli ospedali della Valdichiana e della Maremma e della Sardegna (tre zone particolarmente paludose e malsane) che si manifestano tra luglio e settembre, fossero riunite insieme in una fossa, tale era il dolore in questo luogo, e da esso emanava un fetore simile a quello che suole diffondersi dalle membra putrefatte. Noi scendemmo dal lungo ponte (l’insieme degli archi di pietra che attraversano Malebolge) sull’ultimo argine, sempre dalla parte sinistra; e allora la mia vista divenne più chiara giù verso il fondo, là dove l’infallibile giustizia esecutrice dei voleri di Dio punisce i falsari che segna sul suo libro mentre sono ancora ìn vita (qui: sulla terra). Non credo che fosse maggiormente triste vedere in Egina tutto il popolo malato, quando l’aria fu così piena di germi pestilenziali, che morirono tutti gli esseri viventi, fino al piccolo verme, dopodiché gli antichi abitanti, secondo quanto i poeti affermano come cosa certa, rinacquero dalla specie delle formiche, di quanto fosse vedere in quella buia valle soffrire le anime ammucchiate in cumuli orribili. Alcuni giacevano sul ventre, altri addossati gli uni alle spalle degli altri, altri ancora si trascinavano carponi lungo il miserevole cammino. Procedevamo lentamente senza parlare, osservando e ascoltando i malati, che non potevano alzarsi in piedi. lo vidi due sedere appoggiati l’uno all’altro, come si mette a scaldare teglia contro teglia, macchiati di croste dalla testa ai piedi; e giammai vidi usare la striglia da un garzone di stalla quando è atteso dal suo padrone, né da colui che sta sveglio malvolentieri (e quindi desidera terminare presto il suo lavoro), con la furia con la quale ognuno di essi si grattava spesso con le unghie per il gran tormento del prurito, che non trovava altro sollievo; e le unghie staccavano le croste, come il coltello raschia le squame della scardova (pesce d’acqua dolce) o di altro pesce che le abbia anche più grandi. " O tu che ti togli le croste (come se fossero le maglie di un’armatura: ti dismaglíe) con le unghie " cominciò a dire Virgilio a uno di loro, " e che talvolta le usi come fossero tenaglie, dicci se tra quelli che sono in questo luogo vi è qualche italiano; così possa l’unghia durarti in eterno per il lavoro che compi. " " Noi, che tu qui vedi ambedue così sfigurati, siamo italiani " rispose uno di loro piangendo; " ma tu chi sei che hai chiesto di noi? " E Virgilio disse: " Sono uno che scende giù di cerchio in cerchio con questo essere vivente, e voglio mostrargli l’inferno ". Allora si staccarono l’uno dall’altro (si ruppe lo comun rincalzo: si ruppe il reciproco appoggio); e ciascuno tremando si rivolse a me con altri che avevano ascoltato indirettamente. Il buon Virgilio si accostò con tutta la persona a me, dicendo: " Chiedi loro ciò che vuoi "; e io cominciai, dal momento che egli lo volle : " Possa il ricordo di voi non dileguarsi in terra dalla memoria degli uomini, ma possa vivere per molti anni, ditemi chi siete e di quali città: la vostra ripugnante e dolorosa pena non vi impedisca, per la paura, di rivelarmi i vostri nomi ". " Io nacqui ad Arezzo, e Albero da Siena " rispose uno " mi fece mandare al rogo; ma la colpa per la quale io morii non è quella che mi conduce in questa bolgia. E’ vero che gli dissi, scherzando: "Io saprei alzarmi in volo per l’ aria"; e quello, che era curioso e stolto, volle che gliene insegnassi la maniera; e solo perché non fecì di lui un Dedalo (il mitico costruttore del Labirinto, che attraversò a volo il Mediterraneo, da Creta alla Sicilia; cfr. canto XVII, versi 109 -111), mi fece bruciare da un tale che lo teneva in conto di figlio (il vescovo di Siena). Ma nell’ultima delle dieci bolge, per la sofisticazione dei metalli (alchimia) che praticai in terra, mi condannò Minosse, a cui non è possibile sbaglìare. " E dissi a Virgilio: "Vi fu mai gente così fatua come la senese? Di certo non lo è tanto nemmeno quella francese! " Allora l’altro lebbroso, che mi udì, rispose alle mie parole: " Escludi Stricca che seppe spendere con moderazione, e Niccolò che per primo introdusse la costosa usanza del garofano nel giardino, dove tale seme attecchisce (cioè in Siena); ed escludi la brigata facendo parte della quale Caccia d’Asciano dilapidò i vigneti e i grandi boschi, e l’Abbagliato dimostrò il suo senno. Ma affinché tu sappia chi è a tal punto d’accordo con te contro i Senesi, aguzza la vista verso di me, in modo che il mio viso ti si mostri chiaramente: così t’accorgerai che io sono l’anima di Capocchio, che per mezzo dell’alchimia falsificai i metalli: e ti devi ricordare, se ti riconosco bene, come io fui esperto imitatore della natura ".

CANTO VENTOTTOETTESIMO

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
3 ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
6 c’hanno a tanto comprender poco seno.
S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
9 di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
12 come Livio scrïve, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
15 e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
18 dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
21 il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
24 rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
27 che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
30 dicendo: "Or vedi com’io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
33 fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
36 fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
39 rimettendo ciascun di questa risma,
quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
42 prima ch’altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
45 ch’è giudicata in su le tue accuse?".
"Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena",
rispuose ’l mio maestro, "a tormentarlo;
48 ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
51 e quest’è ver così com’io ti parlo".
Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
54 per maraviglia, oblïando il martiro.
"Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
57 s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
60 ch’altrimenti acquistar non saria leve".
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
63 indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
66 e non avea mai ch’una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
69 ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,
e disse: "O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi su in terra latina,
72 se troppa simiglianza non m’inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
75 che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa saper a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
78 che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
81 per tradimento d’un tiranno fello.
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
84 non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
87 vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
90 non sarà lor mestier voto né preco".
E io a lui: "Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
93 chi è colui da la veduta amara".
Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
96 gridando: "Questi è desso, e non favella.
Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
99 sempre con danno l’attender sofferse".
Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
102 Curïo, ch’a dir fu così ardito!
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
105 sì che ’l sangue facea la faccia sozza,
gridò: "Ricordera’ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",
108 che fu mal seme per la gente tosca".
E io li aggiunsi: "E morte di tua schiatta";
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
111 sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
114 sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
117 sotto l’asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
120 andavan li altri de la trista greggia;
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
123 e quel mirava noi e dicea: "Oh me!".
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
126 com’esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
129 per appressarne le parole sue,
che fuoro: "Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
132 vedi s’alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
135 che diedi al re giovane i ma’ conforti.
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
138 e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
141 dal suo principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrapasso".

PARAFRASI
Chi mai potrebbe sia pure in prosa parlare compiutamente del sangue e delle ferite che vidi allora, anche se le descrivesse più volte? Certamente ogni lingua sarebbe inadeguata a causa del nostro linguaggio e del nostro intelletto che hanno poca capacità a contenere fatti così straordinari. Se anche si riunisse tutta la gente che un tempo nella fortunosa terra di Puglia si dolse delle sue ferite per opera dei Romani (Troiani: in quanto discendevano da Enea e dai suoi compagni) e a causa del lungo conflitto che fruttò un così ingente bottino di anelli, come narra Livio, il quale non sbaglia,> con quella che provò dolori di ferite riportate nell’opporsi a Roberto Guiscardo, e con l’altra le cui ossa sono tuttora raccolte a Ceprano, là dove ogni pugliese fu traditore, e là presso Tagliacozzo, dove il vecchio Alardo vinse senza far uso delle armi, e ostentasse chi un suo membro trafitto e chi un suo membro mutilato, non sarebbe possibile uguagliare l’aspetto ripugnante della nona bolgia. Una botte, per il fatto che ha perduto la doga mediana o una delle laterali, non si apre certo così, come io vidi (aprirsi) un dannato, squarciato dal mento all’ano : gli intestini gli pendevano tra le gambe; gli si vedevano le interiora (la corata: polmoni, cuore, fegato, milza) e il lurido involucro che trasforma in sterco ciò che si inghiotte. Mentre avidamente fissavo lo sguardo su di lui, mi guardò, e si aperse il petto con le mani, dicendo: " Vedi dunque come mi lacero! vedi come è straziato Maometto! Davanti a me lagrimando cammina Alì, spaccato nel volto dal mento ai capelli. E tutti gli altri che vedi in questo luogo, furono da vivi seminatori di discordia e di scissione, e perciò sono così spaccati. Qui dietro è un diavolo che ci acconcia in modo tanto crudele, sottoponendo di nuovo ciascuno di questa turba al taglio della sua spada, quando abbiamo fatto il giro della bolgia dolorosa; poiché le ferite sono rimarginate prima che ciascuno di noi gli ritorni davanti. Ma chi sei tu che ti trattieni a guardare sul ponte, forse per ritardare di andare al castigo che è assegnato in giudizio in base a ciò di cui tu stesso ti sei accusato (davanti a Minosse; cfr. canto V, versi 7-8) ? " "Né morte ancora lo ha raggiunto, né lo spinge il peccato " rispose Virgilio " a subire la pena; ma per dargli una conoscenza completa delle pene infernali, io, che sono morto, debbo guidarlo quaggiù attraverso l’inferno di cerchio in cerchio: e ciò è vero com’è vero che ti sto parlando. " Furono più di cento le anime che, quando lo intesero, si fermarono nella bolgia a fissarmi dimenticando, per lo stupore. il loro tormento. " Dì dunque, tu che forse vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersi di vettovaglie, in modo che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo di Novara quella vittoria, che non sarebbe facile conquistare in altro modo. " Dopo che aveva sollevato uno dei piedi per andarsene, Maornetto mi disse queste parole; quindi lo riappoggiò in terra per allontanarsi. Un altro, che aveva la gola bucata e il naso mozzato fin sotto le ciglia, e non aveva più che un solo orecchio fermatosi a guardare per lo stupore con gli altri, prima degli altri spalancò la gola, che da ogni parte era di fuori insanguinata, e disse: " O tu che nessun peccato condanna e che io conobbi in Italia, se non mi trae in inganno ricordati di Pier da Medicina, se mai torni a vedere la dolce pianura che scende da Vercelli a Marcabò. E informa i due più ragguardevoli cittadini di Fano, messer Guido e anche Angiolello, che se la preveggenza nell’inferno non è errata, saranno gettati fuori della loro nave, e affogati presso Cattolica per il tradimento di uno sleale tiranno. Fra le isole di Cipro e di Maiorca Nettuno non vide mai un misfatto così grande, né da parte di pirati, né da parte di Greci. Quel traditore (Malatestino da Verrucchío, cieco d’un occhio) che vede soltanto con un occhio, e signoreggia la città che uno che è qui con me vorrebbe non aver mai visto, li inviterà a un abboccamento con lui; dopo farà in modo che essi non avranno più bisogno né di voti né di preghiere per scampare dal vento dei monte Focara ". E io a lui: " Mostrami e spiegami, se vuoi che io rechi nel mondo notizie di te, chi è colui al quale è stata dolorosa la vista (di Rimini) ". Allora appoggiò la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: " E’ proprio lui, e non parla. Costui, esiliato (da Roma), tolse a Cesare ogni esitazione, sostenendo che chi è preparato sempre sopporta con danno l’indugio ". Oh quanto mi sembrava avvilito con la lingua recisa nella gola, Curione, che fu così audace nel parlare! E uno che aveva entrambe le mani tagliate, alzando i moncherini nell’aria tenebrosa, così che il sangue gli imbrattava il volto, urlò: " Ti ricorderai anche del Mosca, che dissi, ahimè!, "Cosa fatta non può disfarsi, parole che furono origine di sventure per i Toscani ". E io replicai: " E rovina della tua stirpe "; per cui egli, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò via come una persona esacerbata e fuori di sé. Ma io restai a osservare fissamente la schiera dei dannati, e vidi una cosa, che avrei timore di riferire da solo, senz’altra testimonianza, ma mi rende sicuro la coscienza, che è la valente compagnia che infonde coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza. Senza alcun dubbio vidi, e mi pare ancora di vederlo, un tronco privo di testa camminare come camminavano gli altri dannati della sciagurata schiera e con la mano teneva sospeso per i capelli il capo mozzato come fosse stato una lanterna; e quello ci guardava, e diceva: " Ohimè! " Con gli occhi della propria testa guidava il suo corpo, ed erano due parti in un corpo e un corpo in due parti: come ciò può avvenire, lo sa Dio che così dispone. Quando si trovò proprio alla base del ponte, levò alto il suo braccio insieme con la testa, per farci giungere meglio le sue parole, che furono: " Osserva dunque la pena angosciosa tu che, vivo, te ne vai guardando i morti: vedi se ce n’è una straziante come la mia. E affinché tu possa recare notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, colui che diede al Re giovane i cattivi consigli. Feci diventare il padre e il figlio nemici tra loro: Achitofel non causò maggior danno ad Assalonne e a Davide con i suoi perfidi incitamenti. Poiché io divisi persone così unite, reco il mio cervello diviso, misero me!, dalla sua orìgine (principio: il midollo spinale) che sta in questo busto.