domenica 5 aprile 2009

PRIMO CANTO

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
3 ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
6 che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
9 dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
12 che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
15 che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
18 che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
21 la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
24 si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
27 che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
30 sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
33 che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia d’inanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
36 ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
39 ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
42 di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
45 la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
48 sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
51 e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
54 ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
57 che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
60 mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
63 chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
"Miserere di me", gridai a lui,
66 "qual che tu sii, od ombra od omo certo!".
Rispuosemi: "Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
69 mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
75 poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
78 ch’è principio e cagion di tutta gioia?".
"Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?",
81 rispuos’io lui con vergognosa fronte.
"O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
84 che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
87 lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
90 ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi".
"A te convien tenere altro vïaggio",
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
93 "se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
96 ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
99 e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
102 verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
108 Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
111 là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
114 e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
117 ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
120 quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
123 con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
126 non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
129 oh felice colui cu’ ivi elegge!".
E io a lui: "Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
132 acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
135 e color cui tu fai cotanto mesti".
Allor si mosse, e io li tenni dietro.



PARAFRASI
A metà della nostra esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione di chi ha smarrito la via del retto vivere. Mi è assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento. Il tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose che in essa ho vedute. Ma, giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva trafitto il cuore di angoscia, volsi lo sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino. Allora la paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la sua violenza, E con l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità degli elementi scatenati, mi volsi indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori. Dopo aver riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più basso rispetto a quello in movimento. Ma, giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una lince snella e veloce, dal manto chiazzato: essa non si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro. Era l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio creò, imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata l’ora mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno dell’Ariete appunto in questa stagione), non tanto tuttavia da far si ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone. Questo sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava rabbrividirne. E (oltre al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili, e che già molte genti aveva reso infelici, mi oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di raggiungere la cima del colle. E come colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo animo, tale mi rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi. Mentre stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere la sua voce. Quando lo scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !" Mi rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono entrambi lombardi, originari di Mantova. Vidi la luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di divinità non vere e ingannevoli. Fui poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia (Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ), dopo che la superba città fu incendiata. Ma tu perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta letizia? " "Sei proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio, sorgente copiosa d’inesauribile poesia? O tu che onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha spinto ad accostarmi alla tua opera. Tu sei lo scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama. Guarda la lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra." Virgilio, reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo luogo impervio, seguire una altra strada: perché la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo; e tanto perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti. Numerosi sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la ucciderà crudelmente. Né il potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni. Sarà la salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso. Egli darà la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece uscire. Perciò penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna, dove udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che, fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile dannazione; e vedrai coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo. Se tu vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà: con lei ti lascerò al momento del mio distacco; poiché Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge ( cioè cristiano ). Dio è in ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché risieda in cielo" Ed io: " Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere, per la mia salvezza temporale ed eterna di condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene" Virgilio sì incamminò, e io lo seguii.

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