domenica 5 aprile 2009

QUARTO CANTO

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
3 come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
6 per conoscer lo loco dov’io fossi.
Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
9 che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
12 io non vi discernea alcuna cosa.
"Or discendiam qua giù nel cieco mondo",
cominciò il poeta tutto smorto.
15 "Io sarò primo, e tu sarai secondo".
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: "Come verrò, se tu paventi
18 che suoli al mio dubbiare esser conforto?".
Ed elli a me: "L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
21 quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne".
Così si mise e così mi fé intrare
24 nel primo cerchio che l’abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
27 che l’aura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
30 d’infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: "Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
33 Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
36 ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
39 e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
42 che sanza speme vivemo in disio".
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
45 conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
"Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore",
comincia’ io per voler esser certo
48 di quella fede che vince ogne errore:
"uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?".
51 E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
rispuose: "Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
54 con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
57 di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
60 e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
63 spiriti umani non eran salvati".
Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
66 la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
69 ch’emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
72 ch’orrevol gente possedea quel loco.
"O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
75 che dal modo de li altri li diparte?".
E quelli a me: "L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
78 grazïa acquista in ciel che sì li avanza".
Intanto voce fu per me udita:
"Onorate l’altissimo poeta;
81 l’ombra sua torna, ch’era dipartita".
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
84 sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
"Mira colui con quella spada in mano,
87 che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
90 Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
93 fannomi onore, e di ciò fanno bene".
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
96 che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
99 e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
102 sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
105 sì com’era ’l parlar colà dov’era.
Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
108 difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
111 giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
114 parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
117 sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
120 che del vedere in me stesso m’essalto.
I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
123 Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte, vidi ’l re Latino
126 che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
129 e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
132 seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ïo Socrate e Platone,
135 che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito, che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
138 Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
141 Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
144 Averoìs, che ’l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
147 che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
150 fuor de la queta, ne l’aura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.

PARAFRASI
Posto fra due cibi, ugualmente distanti e ugualmente allettanti, l’uomo dotato di libero arbitrio morirebbe di fame prima di portarne uno ai denti; allo stesso modo starebbe immobile un agnello tra due lupi affamati e feroci, temendo nella stessa misura l’uno e l’altro; Cosi se ne starebbe un cane tra due daini ( senza inseguirne alcuno): perciò, per il fatto che io tacessi, non mi biasimo, né mi vanto, perché non potevo farne a meno.essendo io premuto in ugual misura dai miei dubbi (e impedito di fare una libera scelta). lo me ne stavo zitto, ma il mio desiderio mi era dipinto in volto. e con il desiderio la domanda assai più efficace che non se l’avessi espressa esplicitamente . Beatrice agì con me come fece Daniele con Nabucodonosor, quando lo liberò dall’ira, che l’aveva reso ingiustamente crudele:Il profeta Daniele, per ispirazione divina, indovinò ed interpretò un sogno che il re Nabucodonosor aveva fatto e dimenticato, e che i sapienti babilonesi non riuscivano a indovinare, per cui il re, adirato, aveva dato ordine di ucciderli (Daniele II, 1-45). Come Daniele aveva ricevuto da Dio la rivelazione necessaria, così Beatrice può leggere in Dio i dubbi che angustiano Dante. L'aver incontrato Piccarda, Costanza e altre anime nel cielo della Luna sembra a Dante una conferma della tesi sostenuta da Platone (Timeo 41 d sgg.), secondo la quale l'anima preesiste al corpo e dimora in una stella prima di essere inviata a vivíficare la materia corporea; dopo la morte dell'individuo ritorna alla sua stella, se nuove colpe non la condannano a reincarnarsi in un corpo inferiore. Poiché questa posizione è assolutamente contraria alla dottrina cattolica, la quale afferma che l'anima è creata da Dio quando viene infusa nel corpo, dal quale si separa con la morte per andare al premio o al castigo meritato, Beatrice la discute per prima (versi 26-27), esponendo l'ordinamento morale del Paradiso. e disse: “ lo vedo chiaramente come due dubbi (di ugual forza) ti stimolano a chiedere, in modo che la tua ansia ( di risolverli entrambi ) impaccia se stessa così che non riesce a manifestarsi .Tu ragioni così: “Se la buona volontà persevera nel proposito fatto, per quale motivo la violenza altrui (impedendomi di osservarlo) mi diminuisce la quantità del merito?” Ti dà motivo di ulteriore dubbio il fatto che le anime, secondo l’opinione di Platone, sembrano ritornare ( dopo la morte del corpo) nei cieli. Questi sono i dubbi che premono con uguale forza sulla tua volontà; e pertanto risponderò prima a quello che è più pericolosoLe parole di Beatrice - queste son le question e pria tratterò quella... - autorizzano il lettore ad aspettare una sottile indagine filosofico-morale intorno ai due dubbi di Dante. E in effetti il contenuto del canto IV è squisitamente dottrinale, così che la trepida figura di Piccarda e la luce della gran Costanza sembrano davvero svanite come per acqua cupa cosa grave, senza lasciare traccia. Anche l'immagine folgorante di luce e di amore di Beatrice, con la quale si era chiusa il canto precedente, lascia il posto a una figura rigidamente chiusa nelle sue argomentazioni, che affronta per Dante il problema delle anime che hanno mancato nell'adempimento dei voti. Tuttavia questa impressione di austerità dottrinale, che neppure le tre metafore iniziali, di accentuato vigore drammatico, riescono ad ammorbidire, è destinata a scomparire nelle terzine seguenti, le quali, se rícorderanno appena Piccarda e Costanza, riproporranno tuttavia la luminosa figura di Beatrice (versi 118-120 e 139-140) e lo smarrimento contemplativo di Dante (versi 141-142): due elementi di sicura vìbrazìone lirica tutte le volte che appaiono nella trama del Paradiso. Non è una poesia di sicura presa, che svolga con decisione e continuità il motivo sentimentale-psicologico-affettivo che Dante ha presentato in tante pagine dell'Inferno e del Purgatorio, e che è tornato a riproporre nel canto III del Paradiso, e nemmeno una poesia che faccia perno su una figura monografica o su un intenso svolgimento dell'azione. I due interlocutori appaiono immobili, non c'è intorno danza o canto di beati, i loro interventi si susseguono nel ritmo della domanda e risposta, eppure le loro parole rivelano una disposizione interiore eccezionale: Dante tutto teso alla conquista della suprema verità, Beatrice trasfigurata dalla gioia di chi sa di comunicare la verità. A un'altra manifestazione - diversa da quella di Piccarda, meno adatta a toccare le corde del cuore, ma non per questo meno valida - del senso e dell'ansia del divino che strutturano la cantica. Questa tensione spirituale, per cui la conquista della verità è presentata come lotta, come drammatico «rampollare» di dubbi (cfr. versi 130-132), spiega il linguaggio attivo che caratterizza il canto, il procedere immediato e sicuro, la chiarezza e la forza del singolo termine, capace di racchiudere, nel suo breve giro, il significato di un intero concetto. Infatti, nella misura in cui nei beati i lineamenti del corpo si assottigliano, i ricordi terreni si dissolvono, e la presenza del tema filosofico e mistico diventa predominante, subentra nel Poeta la preoccupazione di sostenere con la materialità e la concretezza del linguaggio un mondo che altrimenti diverrebbe troppo sfumato o troppo astratto.Quello dei Serafini che sta più vicino a Dio, Mosè, Samuele, e quello dei due Giovanni che preferisci, e neppure, dico, la Vergine Maria,

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