domenica 5 aprile 2009

DECIMO CANTO

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
3 lo mio maestro, e io dopo le spalle.
"O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi", cominciai, "com’a te piace,
6 parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
9 tutt’i coperchi, e nessun guardia face".
E quelli a me: "Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
12 coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
15 che l’anima col corpo morta fanno.
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
18 e al disio ancor che tu mi taci".
E io: "Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
21 e tu m’hai non pur mo a ciò disposto".
"O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
24 piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
27 a la qual forse fui troppo molesto".
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
30 temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
33 da la cintola in sù tutto ’l vedrai".
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
36 com’avesse l’inferno a gran dispitto.
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
39 dicendo: "Le parole tue sien conte".
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
42 mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?".
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
45 ond’ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: "Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
48 sì che per due fïate li dispersi".
"S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte",
rispuos’io lui, "l’una e l’altra fïata;
51 ma i vostri non appreser ben quell’arte".
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
54 credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
57 e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: "Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
60 mio figlio ov’è? e perché non è teco?".
E io a lui: "Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
63 forse cui Guido vostro ebbe a disdegno".
Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
66 però fu la risposta così piena.
Di sùbito drizzato gridò: "Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora?
69 non fiere li occhi suoi lo dolce lume?".
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
72 supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
75 né mosse collo, né piegò sua costa;
e sé continüando al primo detto,
"S’elli han quell’arte", disse, "male appresa,
78 ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
81 che tu saprai quanto quell’arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
84 incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?".
Ond’io a lui: "Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
87 tal orazion fa far nel nostro tempio".
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
"A ciò non fu’ io sol", disse, "né certo
90 sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
93 colui che la difesi a viso aperto".
"Deh, se riposi mai vostra semenza",
prega’ io lui, "solvetemi quel nodo
96 che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
99 e nel presente tenete altro modo".
"Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose", disse, "che ne son lontano;
102 cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
105 nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
108 che del futuro fia chiusa la porta".
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: "Or direte dunque a quel caduto
111 che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
114 già ne l’error che m’avete soluto".
E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
117 che mi dicesse chi con lu’ istava.
Dissemi: "Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
120 e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio".
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
123 a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: "Perché se’ tu sì smarrito?".
126 E io li sodisfeci al suo dimando.
"La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te", mi comandò quel saggio;
129 "e ora attendi qui", e drizzò ’l dito:
"quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
132 da lei saprai di tua vita il vïaggio".
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
135 per un sentier ch’a una valle fiede,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

PARAFRASI
Ora il mio maestro avanza per uno stretto sentiero, tra il muro che cinge la città e i sepolcri roventi, e io lo seguo. "O virtù eccelsa (Virgilio), che mi conduci, come tu vuoi, attraverso i cerchi degli empi" presi a dire, "parla ed esaudisci il mio desiderio. Sarebbe possibile vedere i peccatori che giacciono dentro le tombe? tutti i coperchi, infatti, sono sollevati, e nessuno fa ad essi la guardia. " E Virgilio: "Tutte le tombe saranno chiuse quando (nel giorno del Giudizio Universale) le anime torneranno qui dalla valle di Giosafàt insieme ai corpi che hanno lasciato in terra. In questa zona del cerchio hanno il loro luogo di sepoltura Epicuro e i suoi adepti, i quali credono che l’anima muoia insieme al corpo. Perciò ben presto dentro questo stesso cerchio sarà data soddisfazione alla domanda che mi fai, e anche al desiderio che mi nascondi ". E io: "Mia buona guida, io non ti tengo celato il mio animo se non per parlare poco, e tu stesso mi hai indotto a ciò non soltanto ora". "O Toscano che ancora in vita percorri la città infuocata parlando in modo così decoroso, abbi la compiacenza di fermarti qui. Il tuo modo di parlare rivela che sei nato in quella nobile terra alla quale forse arrecai troppo danno." Questa voce si levò all’improvviso da uno dei sepolcri; mi avvicinai, intimorito, un po più a Virgilio. Ed egli mi disse: "Voltati: che cosa fai? Ecco là Farinata che si è levato: lo vedrai interamente dalla cintola in su ". Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; ed egli stava eretto con il petto e con la fronte quasi avesse l’inferno in grande disprezzo. E le mani incoraggianti e sollecite ti Virgilio mi sospinsero fra le tombe verso quel dannato, con questa esortazione: "Le tue parole siano misurate". Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi osservò un poco, e poi, quasi sprezzante, mi chiese: "Chi furono i tuoi antenati ? " Io, che desideravo obbedire, non glieli nascosi, ma tutti glieli indicai; per cui egli sollevò un poco le ciglia, poi disse: "Furono acerrimi nemici miei e dei miei avi e del mio partito, tanto che per due volte li debellai". " Se furono mandati in esilio, tornarono da ogni luogo" gli risposi "sia la prima che la seconda volta; ma i vostri non impararono bene l’arte del ritornare". A questo punto si levò dall’apertura scoperchiata un’ombra accanto a quella di Farinata, visibile dal mento in su: penso si fosse alzata sulle ginocchia. Guardò intorno a me, come se avesse desiderio di vedere se con me c’era qualcun altro; e dopo che ebbe finito di dubitare, tra le lagrime disse: "Se il tuo alto ingegno ti consente di attraversare la buia prigione infernale, dov’è mio figlio? perché non è con te? ". Ed io: "Non giungo per mio merito: Virgilio, che là mi aspetta, attraverso questo luogo mi conduce, se riuscirà a seguirlo, fino a colei (Beatrice, simbolo della fede) che il vostro Guido ebbe in dispregio". Le sue parole e la qualità del supplizio mi avevano già palesato il nome di questo peccatore; perciò la mia risposta fu tanto esauriente. Alzatosi di scatto in piedi gridò: "Come hai detto? egli ebbe? non vive più? la dolce luce non colpisce più i suoi occhi? " Quando si avvide di un certo indugio che io facevo prima di rispondergli, cadde nuovamente indietro e non si mostrò più fuori. Ma il magnanimo Farinata, a richiesta del quale mi ero fermato, non cambiò espressione, né mosse il collo, né chinò il suo fianco; e proseguendo il discorso di prima, disse: " Se hanno male imparato l’ arte del ritornare, ciò mi procura un dolore più grande di quanto non faccia la tomba in cui sto a giacere. Ma il volto della donna che qui governa non si riaccenderà nemmeno cinquanta volte, che tu stesso apprenderai quanto sia dura l’arte di ritornare in patria. E voglia il cielo che tu possa ritornare nel mondo dei vivi, dimmi (per questo augurio che ti faccio): perché il popolo fiorentino è così spietato in ogni sua legge contro quelli della mia famiglia? " Gli risposi: " La crudelissima strage che tinse del colore del sangue il fiume Arbia, fa prendere tali decisioni nelle nostre assemblee ". Dopo aver sospirato e scosso la testa, disse: " Non fui io solo a provocare questa strage né certamente senza un motivo mi sarei mosso insieme agli altri esuli. Ma fui io solo, là dove fu da tutti tollerato che Firenze venisse rasa al suolo, colui che la difesi apertamente " "Deh, possa aver pace un giorno la vostra discendenza " lo pregai, "scioglietemi (in nome di questo augurio) quel dubbio che in questo cerchio ha confuso le mie idee. Sembra che voi prevediate , se intendo bene, quello che il tempo porta con sé (il futuro), ma per il presente vi trovate in una condizione diversa. " " Noi vediamo " disse " come colui che ha la vista difettosa, le cose che sono da noi lontane; di tanto ancora ci illumina Dio. Quando esse si avvicinano o sono presenti, la nostra mente non ci è di nessun aiuto; e se qualcun altro non ci porta notizie, non sappiamo nulla del vostro stato sulla terra. Puoi pertanto capire come la nostra conoscenza sarà del tutto offuscata dal momento in cui (dopo il Giudizio Universale) la porta del futuro si chiuderà. " Allora, come punto dal rimorso per una colpa da me compiuta, parlai: " Ora direte dunque all’ombra che è ricaduta (nel sepolcro) che suo figlio è ancora unito ai vivi; e riferitele che, se poc’anzi tacqui invece di risponderle, lo feci perché già stavo pensando al dubbio che mi avete chiarito ". Ormai Virgilio mi stava richiamando; perciò con maggior sollecitudine pregai Farinata che mi facesse i nomi dei suoi compagni di pena. Mi disse: " In questa parte del cerchio giaccio con moltissimi altri: qui dentro ci sono Federico Il, e il Cardinale; e taccio dei rimanenti ". Poi si nascose (nel sepolcro); ed io mi diressi verso Virgilio, riandando col pensiero a quella profezia che mi sembrava ostile. Egli s’incamminò; e poi, mentre procedevamo, mi chìese: " Perché sei così turbato? " E io risposi alla sua domanda. "La tua memoria serbi ciò che di ostile ti è stato predetto " mi ingiunse Virgilio. "Ed ora fa attenzione a queste parole " ed alzò l’indice: " quando ti troverai in presenza della soave luce che si sprigiona da colei (Beatrice) che vede tutte le cose, apprenderai da lei il corso della tua vita. " Poi si diresse verso sinìstra: ci allontanammo dal muro e procedemmo, verso la parte centrale del cerchio seguendo un sentiero che terminava in un baratro il quale faceva giungere fin lassù il suo puzzo nauseabondo.

NONO CANTO

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
3 più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
6 per l’aere nero e per la nebbia folta.
"Pur a noi converrà vincer la punga",
cominciò el, "se non... Tal ne s’offerse.
9 Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!".
I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
12 che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
15 forse a peggior sentenzia che non tenne.
"In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
18 che sol per pena ha la speranza cionca?".
Questa question fec’io; e quei "Di rado
incontra", mi rispuose, "che di noi
21 faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è ch’altra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
24 che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
27 per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
30 ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
33 u’ non potemo intrare omai sanz’ira".
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
36 ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
39 che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
42 onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
45 "Guarda", mi disse, "le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
48 Tesifón è nel mezzo"; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
51 ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
"Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto",
dicevan tutte riguardando in giuso;
54 "mal non vengiammo in Tesëo l’assalto".
"Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
57 nulla sarebbe di tornar mai suso".
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
60 che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
63 sotto ’l velame de li versi strani.
E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
66 per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori,
69 che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
72 e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: "Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
75 per indi ove quel fummo è più acerbo".
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
78 fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
81 passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
84 e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
87 ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
90 l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
"O cacciati del ciel, gente dispetta",
cominciò elli in su l’orribil soglia,
93 "ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
96 e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
99 ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo".
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
102 d’omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
105 sicuri appresso le parole sante.
Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
108 la condizion che tal fortezza serra,
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
111 piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
114 ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
117 salvo che ’l modo v’era più amaro;
ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
120 che ferro più non chiede verun’arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
123 che ben parean di miseri e d’offesi.
E io: "Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
126 si fan sentir coi sospiri dolenti?".
Ed elli a me: "Qui son li eresïarche
con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
129 più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi".
132 E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.

PARAFRASI
Quel colore smorto che la paura aveva diffuso sul mio volto, quando avevo veduto Virgilio tornare indietro, fece sparire più presto il pallore che da poco era apparso sul suo. Si arrestò attento come chi cerca di percepire un suono; lo sguardo, infatti, non poteva portarlo a distinguere lontano attraverso l’aria buia e la densa caligine. "Eppure dovremo vincere questa battaglia" prese a dire, "a meno che... (ma no, non è possibile). Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno! " Mi accorsi facilmente come Virgilio cancellasse il senso delle prime parole con quelle aggiunte in seguito, diverse dalle prime; ciò nonostante il suo discorso mi diede timore, poiché io attribuivo alla frase non conclusa un significato forse peggiore di quello che aveva. "Nel fondo della dolorosa voragine infernale avviene mai che discenda qualcuno del primo cerchio (il limbo), dove le anime hanno come sola punizione la speranza (di vedere Dio) destinata a non realizzarsi mai ?" Feci questa domanda; e Virgilio mi rispose: "Raramente avviene che qualcuno di noi faccia la strada che io sto percorrendo. E’ bensì vero che già un’altra volta fui quaggiù, richiamato dagli scongiuri di quella crudele Eritone che faceva tornare le anime nei loro corpi, Da poco tempo il mio corpo era privo dell’anima, allorché costei mi fece entrare nella città di Dite, per fare uscire un’anima del cerchio dove e dannato Giuda. Quello è il posto più basso e più buio, e più lontano dal cielo che imprime il movimento all’universo: conosco bene il cammino; perciò rassicurati. Nella cosmologia della Commedia, il ciel che tutto gira è, rispetto alla terra, l'ultimo dei nove cieli fisici. E' chiamato Primo Mobile, perché da esso si trasmette il movimento a tutto il creato. L’acquitrino da cui emana il grande fetore circonda tutt’intorno la città dei dannati, nella quale non possiamo ormai entrare senza lotta. E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata, dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamentodi donna, e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste, E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: " Ecco le implacabili Erinni. Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone"; ciò detto, tacque. Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio. "Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra" dicevano tutte quante guardando verso il basso: "fu male non punire nella persona di Teseo l’ assalto (portato al regno dell’oltretomba). " "Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra. " Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue. O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi. E già si stava avvicinando sulla superficie fangosa della palude un rumore fragoroso e terrificante, che faceva tremare sia l’una che l’altra riva dello Stige, non diverso da quello di un vento reso violento dal calore delle masse d’aria (che trova sul suo cammino), il quale colpisce la foresta e senza che nulla possa trattenerlo spezza i rami, li scaglia a terra e li trascina fuori (della selva); avanza imponente, in una nuvola di polvere, e causa la fuga dei greggi e dei pastori. Virgilio mi liberò gli occhi (che erano coperti dalle sue mani) e disse: "Dirigi adesso la forza del tuo sguardo sulla superficie schiumosa dell’antica palude, verso quella parte dove la nebbia è più molesta". Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra, così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi. Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione. Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui. Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo. "O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata", prese a dire sullo spaventoso limitare, " da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi? Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore? A che serve opporsi ai decreti divini ? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo. " Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette. Entrammo in essa senza incontrare opposizioni; e io, che desideravo osservare lo stato delle cose contenute dentro quelle mura fortificate, non appena entrato, mi guardai d’attorno; e vidi da ogni parte una grande pianura colma di dolore e di supplizi crudeli. Come ad Arles, dove la corrente del Rodano (sfociando nel mare) si arresta, e come a Pola, presso il golfo del Quarnaro che delimita l’Italia e ne bagna i confini, le tombe rendono tutto il terreno vario, così facevano qui in qualsiasi punto, solo che la forma della sepoltura era più angosciosa; poichè fra i sepolcri erano sparse fiamme, a causa delle quali erano tanto roventi, che nessun’arte (di fabbro) chiede che il ferro lo sia di più. Le pietre tombali erano tutte sollevate, e uscivano dai sepolcri lamenti così disperati, che parevano davvero (lamenti) di infelici e di suppliziati. E io: "Maestro, quali sono quelle turbe che sepolte dentro quelle tombe, si fanno udire attraverso i loro dolorosi gemiti ? " E Virgilio: "Qui si trovano i capi di eresie con i loro seguaci, di ogni setta, e i sepolcri sono molto più pieni di quanto tu creda. I seguaci di una stessa eresia sono sepolti insieme, e i monumenti sepolcrali sono ora più ora meno caldi". E dopo essersi volto a destra, ci incamminammo fra il luogo dei supplizi e le alte mura.

OTTAVO CANTO

Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
3 li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
6 tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: "Questo che dice? e che risponde
9 quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?".
Ed elli a me: "Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
12 se ’l fummo del pantan nol ti nasconde".
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
15 com’io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
18 che gridava: "Or se’ giunta, anima fella!".
"Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto",
disse lo mio segnore, "a questa volta:
21 più non ci avrai che sol passando il loto".
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
24 fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
27 e sol quand’io fui dentro parve carca.
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
30 de l’acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
33 e disse: "Chi se’ tu che vieni anzi ora?".
E io a lui: "S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?".
36 Rispuose: "Vedi che son un che piango".
E io a lui: "Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
39 ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto".
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
42 dicendo: "Via costà con li altri cani!".
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: "Alma sdegnosa,
45 benedetta colei che ’n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
48 così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
51 di sé lasciando orribili dispregi!".
E io: "Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
54 prima che noi uscissimo del lago".
Ed elli a me: "Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
57 di tal disïo convien che tu goda".
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
60 che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
e ’l fiorentino spirito bizzarro
63 in sé medesmo si volvea co’ denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
66 per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: "Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
69 coi gravi cittadin, col grande stuolo".
E io: "Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
72 vermiglie come se di foco uscite
fossero". Ed ei mi disse: "Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
75 come tu vedi in questo basso inferno".
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
78 le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
81 "Usciteci", gridò: "qui è l’intrata".
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
84 dicean: "Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?".
E ’l savio mio maestro fece segno
87 di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: "Vien tu solo, e quei sen vada
90 che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
93 che li ha’ iscorta sì buia contrada".
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
96 ché non credetti ritornarci mai.
"O caro duca mio, che più di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
99 d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar", diss’io, "così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
102 ritroviam l’orme nostre insieme ratto".
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: "Non temer; ché ’l nostro passo
105 non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
108 ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso".
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
111 che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
114 che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
117 e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
120 "Chi m’ha negate le dolenti case!".
E a me disse: "Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
123 qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
126 la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
129 passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta".

PARAFRASI
Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si diressero verso la sua sommità attratti da due fiammelle che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro sguardo poteva distinguerla. Allora mi rivolsi a Virgilio, dicendo: " Che significato ha questo segnale? e quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli che l’hanno accesa ? " E Virgilio di rimando: " Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso (da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno esala non lo celano ai tuoi occhi ". Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse nell’aria con una velocità paragonabile a quella della piccola imbarcazione che vidi in quell’istante dirigersi sull’acqua verso di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: " Ti ho finalmente raggiunto, spirito malvagio! " " Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente contro di noi " ribatte il mio maestro, "a non ci avrai in tuo potere che il tempo necessario per attraversare la palude fangosa." Come colui che apprende di essere stato gravemente ingannato, e allora prova rammarico, così divenne Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse. Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo di lui; soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri privi del corpo, non hanno peso). Non appena Virgilio e io fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno) barca cominciò a fendere l’acqua, immergendosi in essa più profondamente di quanto non faccia di solito, quando trasporta le anime. Mentre solcavamo l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: "Chi sei tu che arrivi anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della morte ) ? " Ed io: " Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?" Rispose: "Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (cioè un dannato) ". Ed io: " Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango ". Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: " Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti ! " Poi mi abbraccio: mi baciò in viso, e disse: "Anima fiera, sia benedetta colei che ti ha portato nel grembo! Quello fu in vita un prepotente; nessuna azione buona abbellisce il ricordo che di sé ha lasciato: per questo la sua anima e qui in preda al furore. Quanti che si considerano adesso nel mondo persone di grande importanza, qui staranno come porci nel fango, lasciando di sé il ricordo di atti spregevoli ! " Ed io: "Maestro, sarei molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di vederlo immergere in questa melma". E Virgilio: "Prima che tu possa vedere la riva, sarai appagato: è giusto che tu goda del soddisfacimento di questo tuo desiderio" . Poco dopo vidi gli iracondi fare di lui un tale scempio, che per esso ancora glorifico e rendo grazie a Dio. Tutti insieme gridavano: " Addosso a Filippo Argenti! "; e il rabbioso dannato fiorentino volgeva contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti. Lo abbandonammo a questo punto, in condizioni tali, che non occorre aggiungere altre parole; ma ecco che un suono doloroso colpì il mio udito, per la qual cosa spalancai gli occhi guardando attentamente davanti a me. In questo canto il linguaggio è sempre teso e ricco di movimento drammatico; il presente storico sbarro sottolinea la subitaneità della nuova impressione che il Poeta avverte. Virgilio mi disse: " Ormai, figlio, si avvicina la città chiamata Dite, coi suoi abitanti oppressi dal dolore, col grande esercito (dei diavoli)". Ed io: " Maestro, distinguo già chiaramente laggiù nell’avvallamento le sue torri, rosseggianti come se fossero uscite dal fuoco". E Virgilio mi disse: "Il fuoco eterno che all’interno le arroventa, le fa apparire rosse, come puoi vedere in questa parte bassa dell’inferno ". Arrivammo infine dentro i profondi fossati che difendono quella città desolata: mi sembrava che le mura fossero di ferro. Non senza aver prima fatto un ampio giro, giungemmo in un punto dove il nocchiero gridò ad alta voce: " Uscite da qui (dalla barca): ecco la porta (della città di Dite) ". Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: " Chi e costui che ancora in vita visita il regno dei morti?". E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte. Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: "Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire e penetrato in questo regno. Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui ". Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi. " Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare " dissi " in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui). " E Virgilio, che mi aveva condotto li, mi disse: "Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto. Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con lasperanza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’ inferno (nel mondo basso)". Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza. Non potei udire quello che disse loro: ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura. Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti. Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: "Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore! ". E rivolto a me: "Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso. Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata. Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione, colui ad opera del quale la città ci sarà aperta".

SETTIMO CANTO

"Pape Satàn, pape Satàn aleppe!",
cominciò Pluto con la voce chioccia;
3 e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: "Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
6 non ci torrà lo scender questa roccia".
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: "Taci, maladetto lupo!
9 consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
12 fé la vendetta del superbo strupo".
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
15 tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
18 che ’l mal de l’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
21 e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
24 così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
27 voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
30 gridando: "Perché tieni?" e "Perché burli?".
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
33 gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
36 E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
dissi: "Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
39 questi chercuti a la sinistra nostra".
Ed elli a me: "Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
42 che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
45 dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
48 in cui usa avarizia il suo soperchio".
E io: "Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
51 che furo immondi di cotesti mali".
Ed elli a me: "Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
54 ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
57 col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
60 qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
63 per che l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
66 non poterebbe farne posare una".
"Maestro mio", diss’io, "or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?".
E quelli a me: "Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
72 Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
75 sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
78 ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
81 oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
84 che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
87 suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
90 sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
93 dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
96 volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
99 quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta".
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
102 per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
105 intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
108 al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
111 ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
114 troncandosi co’ denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: "Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
117 e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
120 come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
123 portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra".
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
126 ché dir nol posson con parola integra".
Così girammo de la lorda pozza
grand’arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
129 con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.

PARAFRASI
"Papé Satàn, papé Satàn aleppe!" prese a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio (Virgilio), dalla sconfinata dottrina, per rincuorarmi così mi parlò: "Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti, per quanto egli sia potente, non ci impedirà di scendere (dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo. Quindi, rivolto verso quel tumido volto, disse: "Taci, maledetto demonio: struggiti internamente per la rabbia. Non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si vuole nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’ orgogliosa ribellione (di Lucifero e dei suoi seguaci)". Come le vele gonfiate dal vento cadono (confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si spezza, così piombò a terra il mostro malvagio. Scendemmo in tal modo nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo. Ahimè, giustizia di Dio! chi mai ammassa tanti inimmaginabili supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana colpa a tal punto ci strazia ? Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde (del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le turbe ballino. Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti. (Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: "Perché conservi? " e "Perché sperperi ? " In tal maniera tornavano indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le direzioni fino al punto diametralmente opposto, gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello ingiurioso; poi, una volta qui arrivato, ciascuno tornava indietro, ripercorrendo il suo semicerchio fino allo scontro successivo. E io, che mi sentivo quasi turbato, dissi: "Maestro, spiegami ora quale moltitudine è questa, e se costoro che sono alla nostra sinistra e hanno la tonsura, furono tutti ecclesiastici ". Ed egli: "Tutti quanti ebbero la mente così ottenebrata durante la vita in terra (la vita primaia: la prima vita), che non fecero alcuna spesa misuratamente. Le loro parole lo dichiarano abbastanza esplicitamente, allorché giungono nei due punti del cerchio dove i loro opposti peccati li separano. Questi, che portano la tonsura, furono ecclesiastici, e papi e cardinali, nei quali l’avarizia si manifestò in modo eccessivo". E io: "Fra costoro, maestro, dovrei certo riconoscere qualcuno che si macchiò di queste colpe". E Virgilio: "Accogli nella tua mente un pensiero assurdo: la dissennata vita che li rese turpi, li rende ora oscuri ad ogni tentativo di riconoscerli. Per l’eternità accorreranno ai due punti per scontrarsi: gli uni risorgeranno dalla tomba coi pugni chiusi, gli altri con i capelli recisi. Lo spendere e il risparmiare in misura smodata li ha privati del paradiso, e condannati a questa mischia: per farti capire di qual genere essa sia, non c’è bisogno che io l’adorni di belle parole. Puoi ora vedere, figlio, quanto sia breve l’inganno dei beni che sono affidati alla Fortuna, per i quali il genere umano si accapiglia; poiché tutte le ricchezze che sono e furono sulla terra, non potrebbero dar pace neppure a una sola di queste anime affaticate ". " Maestro ", dissi a Virgilio, " spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra? " E Virgilio: "O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ). Dio, la cui sapienza oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia angelica trasmette la luce al suo cielo, distribuendola equamente: allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una guida che le amministrasse tutte e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi; per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba. L’ accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro. I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato. Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano; ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della sua beatitudine. Ma è tempo di scendere ormai verso un dolore più grande; già ogni stella che, quando venni in tuo aiuto, saliva in cielo, tramonta e non ci è concesso un lungo indugio ". Attraversammo il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e si riversa in un fossato che da essa deriva. L’acqua era più nera che livida; e noi, insieme alle onde torbide, scendemmo nel cerchio quinto attraverso un cammino malagevole. Questo triste ruscello sfocia nella palude chiamata Stige, dopo essere sceso fino alla base dei crudeli e foschi dirupi. Ed io, che ero intento a guardare, vidi in quella palude moltitudini imbrattate di fango, tutte nude, con l’espressione crucciata. Questi peccatori si colpivano l’un l’altro non solo con le mani, ma con la testa e col petto e coi piedi, e si dilaniavano a pezzo a pezzo coi denti. Virgilio disse: "Figlio, puoi ora vedere gli spiriti di coloro che furono sopraffatti dall’ira; e voglio che tu inoltre sappia che sotto il pelo dell’acqua vi sono dannati che sospirano, e fanno gorgogliare quest’acqua alla superficie, come puoi vedere, da qualunque parte tu guardi. Immersi nella fanghiglia, dicono: "Fummo malinconici nell’aria dolce allietata dal sole, portando nel nostro animo la caligine dell’accidia: ora ci addoloriamo nella nera melma". Si gorgogliano questo lamento (inno: qui in senso ironico) in gola, perché non lo possono pronunciare con parole chiare e complete". Costeggiammo così per lungo tratto la sozza palude, tenendoci tra il pendio asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango: giungemmo alla fine alla base d’una torre.

SESTO CANTO

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
3 che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
6 e ch’io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
9 regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
12 pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
15 sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
18 graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
21 volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
24 non avea membro che tenesse fermo.
E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
27 la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
30 ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
33 l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
36 sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
39 ch’ella ci vide passarsi davante.
"O tu che se’ per questo ’nferno tratto",
mi disse, "riconoscimi, se sai:
42 tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto".
E io a lui: "L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
45 sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
48 che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente".
Ed elli a me: "La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
51 seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
54 come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
57 per simil colpa". E più non fé parola.
Io li rispuosi: "Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
60 ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
63 per che l’ha tanta discordia assalita".
E quelli a me: "Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
66 caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
69 con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
72 come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
75 le tre faville c’hanno i cuori accesi".
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: "Ancor vo’ che mi ’nsegni,
78 e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
81 e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
84 se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca".
E quelli: "Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
87 se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
90 più non ti dico e più non ti rispondo".
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
93 cadde con essa a par de li altri ciechi.
E ’l duca disse a me: "Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
96 quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
99 udirà quel ch’in etterno rimbomba".
Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
102 toccando un poco la vita futura;
per ch’io dissi: "Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
105 o fier minori, o saran sì cocenti?".
Ed elli a me: "Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
108 più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
111 di là più che di qua essere aspetta".
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
114 venimmo al punto dove si digrada:
uivi trovammo Pluto, il gran nemico.

PARAFRASI
Quando riprendo la conoscenza, che era rimasta in me offuscata alla vista del pianto doloroso di Paolo e Francesca, pianto che mi aveva, per la tristezza, completamente sconvolto, vedo intorno a me nuove pene e nuovi puniti, dovunque io vada, o mi rigiri, o volga lo sguardo. Mi trovo nel terzo cerchio, il cerchio della pioggia destinata a non aver termine, tormentatrice, gelida e pesante; mai non cambia il suo ritmo ne la materia di cui è fatta. Grossi chicchi di grandine, acqua sudicia e neve cadono con violenza attraverso l’ aria buia; la terra che accoglie tutto questo emana un fetido odore. Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra, a modo di cane, attraverso tre gole, incombendo sulle turbe che in quest’acqua impura sono immerse. Ha gli occhi iniettati di sangue, la barba unta e nera, il ventre capace, e le mani munite di artigli; graffia le anime dei peccatori, le scuoia e le squarta. Sul piano allegorico, secondo gli antichi commentatori, gli occhi... vermigli stanno a significare l'avidità rabbiosa, la barba unta la ributtante ingordigia, il ventre largo l'insaziabilità, le unghiate mani l'indole rapace. La pioggia li spinge a lamentarsi in modo disumano: con uno dei fianchi proteggono l’altro; gli infelici peccatori continuano a rivoltarsi (cercando inutilmente di sottrarsi al tormento). Quando Cerbero, l’orribile mostro, ci vide, spalancò le bocche e ci mostrò i denti; un fremito di rabbia lo agitava tutto. Virgilio tese le mani aperte, afferrò della terra, e, riempitosene i pugni, la gettò nelle tre bramose gole. Come quello del cane che, abbaiando, manifesta il suo desiderio, e si calma solo dopo aver addentato il cibo, poiché è tutto intento nello sforzo di divorarlo, tale divenne il sozzo aspetto del triplice volto del diavolo Cerbero, che (coi suoi latrati) stordisce i peccatori a tal punto, da far loro desiderare la sordità. (Camminando) calpestavamo le ombre che la pioggia fastidiosa prostra, e mettevamo le piante dei nostri piedi sulla loro inconsistenza materiale, che ha l’apparenza di un corpo umano. Erano tutte distese per terra, ad eccezione di una che si levò a sedere, non appena ci vide passarle davanti. "O tu che sei condotto per questo inferno", parlò, "vedi se sei in grado di riconoscermi: tu nascesti prima che io morissi." E io: "La pena che ti tormenta forse ti allontana dalla mia memoria, così che mi sembra di non averti mai veduto. Ma dimmi chi sei, anima collocata in un posto così doloroso ed assegnata ad un tale tormento, che, se pur ve ne sono di più grandi, nessuno è altrettanto fastidioso". Ed egli "Firenze, che a tal punto è colma di odio da non poterne più contenere, mi ebbe fra i suoi abitanti quando vivevo sulla terra. Voi concittadini mi chiamaste Ciacco: per il peccato rovinoso della gola, come vedi, mi struggo sotto la pioggia. Né io (qui) sono il solo spirito infelice, poiché tutti questi altri sono soggetti ai medesimi tormenti per la medesima colpa". E più non pronunciò parola. Gli risposi: "Ciacco, il tuo dolore mi affligge tanto, da indurmi a piangere; ma dimmi, se lo sai, a quali estremi si ridurranno gli abitanti della città divisa in fazioni; se in essa si trova qualcuno che sia giusto; e dimmi anche il motivo per cui tanta discordia ha cominciato a travagliarla". Ed egli: "Dopo una lunga contesa si arriverà a un fatto di sangue, e il partito degli uomini del contado (la parte selvaggia: quella dei Cerchi, i Bianchi) manderà in esilio gli esponenti del partito avversario (quello dei Donati, i Neri) danneggiandoli gravemente. In seguito è destino che il partito dei Bianchi soccomba prima che siano trascorsi tre anni, e che il partito dei Neri abbia il sopravvento con l’aiuto di qualcuno che attualmente si barcamena (fra le due opposte fazioni). Il partito dei Neri spadroneggerà a lungo. tenendo sottomessa la fazione avversa con provvedimenti iniqui, per quanto questa si lamenti e si sdegni. I cittadini giusti sono due, ma nessuno dà loro ascolto: la superbia, l’invidia e la brama di guadagni sono le tre scintille che hanno appiccato il fuoco agli animi (aizzando i Fiorentini gli uni contro gli altri)". A questo punto pose termine al suo discorso doloroso; e io: "Vorrei avere da te ancora altri schiarimenti, e vorrei che tu mi facessi la grazia di continuare a parlare. Farinata e Tegghiaio, che furono così degni di onore, Jacopo Rusticucci, Arrigo e Mosca e gli altri cittadini che si adoperarono per il bene di Firenze, dimmi dove si trovano e fa in modo che io apprenda qualcosa di loro; perché grande è il desiderio che ho di sapere se il paradiso dà loro dolcezza, o l’inferno li amareggia". E Ciacco: "Si trovano tra i dannati più colpevoli: peccati diversi (da quello punito in questo cerchio) pesano su di loro in modo da tenerli nella parte bassa dell’inferno: se scenderai fin laggiù, potrai vederli. Ma quando sarai tornato tra i vivi, ti prego di richiamare il mio nome alla loro memoria: più non parlerò né ti risponderò". Allora stravolse gli occhi che fino allora avevano guardato diritti davanti a se; per un attimo ancora mi guardò, e poi abbassò la testa: piombò giù con essa allo stesso livello degli altri dannati (ciechi: in quanto privi della luce dell’intelletto). E Virgilio mi disse: "Più non si alzerà prima del suono delle trombe degli angeli, quando verrà il giudice nemico del reprobi (Cristo): ogni dannato rivedrà ( allora ) il suo triste sepolcro, assumerà nuovamente il corpo e l’aspetto che aveva da vivo, ascolterà la sentenza che deciderà la sua sorte per l’ eternità". La solennità di questa rappresentazione del Giudizio Universale non trova riscontro che in alcuni dei più grandi capolavori delle arti figurative. Cosi, razionando un poco intorno alla vita d’oltretomba, camminammo lentamente attraverso l’ immondo miscuglio fatto di ombre di peccatori e di acqua; e pertanto mi rivolsi a Virgilio: " Maestro, queste pene aumenteranno o diminuiranno d’intensità dopo Il Giudizio Universale, o saranno dolorose come adesso? " E Virgilio: "Ripensa alla tua dottrina, secondo la quale, quanto più una cosa è perfetta, tanto più intensamente sente il piacere non meno del dolore. Benché i dannati non possano mai conseguire la vera perfezione (che si ha solo quando l’uomo e vicino a Dio), attendono di essere perfetti dopo il Giudizio più che non prima". Percorremmo il cerchio secondo la sua circonferenza, discorrendo assai di più di quanto io non abbia qui riferito; giungemmo nel punto ove da questo cerchio si scende nel successivo: ivi ci imbattemmo in Pluto, l’orribile diavolo.

QUINTO CANTO

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
3 e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
6 giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
9 e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
12 quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
15 dicono e odono e poi son giù volte.
"O tu che vieni al doloroso ospizio",
disse Minòs a me quando mi vide,
18 lasciando l’atto di cotanto offizio,
"guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!".
21 E ’l duca mio a lui: "Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
24 ciò che si vuole, e più non dimandare".
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
27 là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
30 se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
33 voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
36 bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
39 che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
42 così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
45 non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
48 così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: "Maestro, chi son quelle
51 genti che l’aura nera sì gastiga?".
"La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper", mi disse quelli allotta,
54 "fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
57 per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
60 tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
63 poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
66 che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano"; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
69 ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: "Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
75 e paion sì al vento esser leggeri".
Ed elli a me: "Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
78 per quello amor che i mena, ed ei verranno".
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: "O anime affannate,
81 venite a noi parlar, s’altri nol niega!".
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
84 vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
87 sì forte fu l’affettüoso grido.
"O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
93 poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
96 mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
99 per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
102 che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
105 che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense".
108 Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
111 fin che ’l poeta mi disse: "Che pense?".
Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
114 menò costoro al doloroso passo!".
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri
117 a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
120 che conosceste i dubbiosi disiri?".
E quella a me: "Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
123 ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
126 dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
129 soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
132 ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
135 questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
138 quel giorno più non vi leggemmo avante".
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
141 io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

PARAFRASI
Scesi dunque dal primo nel secondo cerchio, dove c’è meno spazio, ma una pena tanto più crudele, che spinge le anime a lamentarsi. Li’ c’è l’ orribile Minosse, e ringhia: valuta, all’ingresso del cerchio, le colpe delle anime; li giudica e li manda al loro posto a seconda del numero di volte che attorciglia la coda intorno al proprio corpo. Voglio dire che quando l’anima sciagurata si presenta a lui, confessa i suoi peccati; e quel giudice dei peccati comprende quale parte dell’inferno si addice ad essa; si avvolge con la coda tante volte per quanti cerchi infernali vuole che venga precipitata in basso .Davanti a lui ci sono sempre in gran numero di anime: a turno si sottopongono ciascuna al suo giudizio; si confessano e ascoltano la sentenza, e poi vengono mandate giù.”O tu che vieni nel luogo del dolore”, mi disse Minosse quando mi vide, interrompendo l’azione di un dovere così importante,”guardati dell’ entrare, e guardati da colui di cui ti fidi, non farti trarre in inganno dalla larghezza dell’entrata!” E Virgilio gli disse: ” Perché gridi ? Non ostacolare il suo viaggio predestinato: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole, e non chiedere altro”. A questo punto cominciano a farsi sentire le grida di dolore; ora sono arrivato là dove molti pianti mi colpiscono. Arrivai in un posto privo d’ogni luce, che muggisce come un mare in tempesta, colpito da venti contrari .La tempesta infernale,che non si ferma mai, trascina le anime con impeto travolgente: le tormenta facendole vorticare e percotendole. Quando giungono davanti al precipizio, ecco le grida,il pianto, i lamenti; bestemmiano la virtù di Dio. Capii che a una tale pena sono condannati i lussuriosi, che sottomettono la ragione alla passione. E come le ali portano gli stornelli in inverno, che si dispongono in gruppi estesi e compatti, così quel vento trascina le anime perverse di qua, di là, di su, di giù; mai nessuna speranza li conforta, non smettono mai di vorticare. E come le gru sono solite cantare i loro lamenti, disponendosi in aria in lunghe file, così vidi avvicinarsi, emettendo gemiti, le anime portate dal turbine sopra menzionato: per questo chiesi: ” Chi sono mai, maestro, quegli spiriti che il vento buio in tal modo punisce?” “La prima di quelle anime di cui tu mi chiedi notizia” mi rispose allora Virgilio, “regnò su molti popoli di lingua diversa. Fu così corrottadalla lussuria, che legalizzò, ogni forma di piacere. E’ Semiramide, di cui le storie raccontano che fu sposa di Nino, a cui succedette:governò la regione che attualmente il sultano governa.L’altra è Didone, che si tolse la vita, per amore, e non rimase fedele al cadavere del marito Sicheo, e c’e anche la lussuriosa Cleopatra. Guarda Elena, a causa della quale trascorsero tanti anni di guerra, e guarda il famoso Achille, che morì combattendo per amore. Guarda Paride, Tristano “; e mi indicò più di mille anime, facendo i nomi di persone che l’ amore strappò alla vita. Dopo aver ascoltato il mio maestro nominare tutti quelle donne ed eroi dell’antichità, fui preso dalla compassione, e quasi svenni. Dissi: “Poeta, desidererei parlare con quei due che vorticano uniti, e che sembrano così leggeri nel vento”. E Virgilio: ” Vedrai quando saranno più vicini; e tu allora pregali in nome di quell’ amore che li conduce, e loro verranno”. Non appena il vento li portò verso di noi, dissi: “O anime tormentate, venite a parlarci, se nessuno ve lo vieta! ” Come le colombe, chiamate dal desiderio, si diressero nel cielo verso l’amato nido, con le ali spiegate e immobili, portate dal desiderio, così esse uscirono dalla schiera delle anime di cui fa parte anche Didone, venendo da noi attraverso l’aria infernale, tanto forte fu il richiamo affettuoso. “O uomo cortese e benevolo che attraverso l’aria buia vieni a visitare noi che macchiammo il mondo di sangue, se il re del creato ci fosse amico, noi lo pregheremmo per la tua pace, dal momento che provi compassione per il nostro atroce tormento. Ascolteremo e vi diremo quelle cose che vorrete dire e ascoltare, per tutto il tempo che la bufera ci lascia in pace, La città dove nacqui si affaccia sulla spiaggia dove il Po sfocia per trovare, coi suoi affluenti, quiete. Amore, che rapidamente fa presa su un cuore nobile, si impadronì di Paolo per la mia bellezza fisica, bellezza che mi fu tolta quando venni uccisa; e il modo in cui fui uccisa ancora oggi mi offende. Amore, che non permette che chi è amato non ami a sua volta, mi fece innamorare della bellezza di Paolo, che, come ben puoi vedere, ancora mi lega a lui. L’ amore ci portò a morire insieme: colui che ci ha tolto la vita è atteso nella Caina.” Queste parole ci vennero dette da loro. Udite quelle anime travagliate, abbassai io sguardo, e lo tenni abbassato tanto a lungo, che alla fine Virgilio mi chiese: “A cosa pensi? ” Risposi: “Ohimè, quanti pensieri amorosi, quanto desiderio condusse loro a peccare! ” Poi, rivolto a loro, parlai, e dissi: “Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso. Però dimmi: al tempo dei dolci sospiri, perché e come l’ amore consentì che la passione si rivelasse?” E Francesca rispose: “Nulla mi addolora maggiormente che ripensare ai momenti di gioia quando si è nel dolore; e di ciò è consapevole il tuo maestro,Ma se sei così curioso, te lo dirò piangendo. Noi leggevamo un giorno, per svago, la storia di Lancillotto e dell’amore che s’impadronì di lui: eravamo soli e non avevamo nulla da temere. Più volte quella lettura fece incontrare i nostri sguardi, e ci fece impallidire; ma solo un passo ad avere la meglio sulla nostra resistenza. Quando leggemmo come la bocca desiderata di Ginevra fu baciata da un così nobile innamorato, Paolo, che mai sarà separato da me, mi baciò, trepidante, la bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non proseguimmo oltre nella sua lettura”.Mentre una delle due anime diceva queste cose, l’altra piangeva, così che per la compassione perdetti i sensi e caddi a terra come cade un corpo morto

QUARTO CANTO

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
3 come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
6 per conoscer lo loco dov’io fossi.
Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
9 che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
12 io non vi discernea alcuna cosa.
"Or discendiam qua giù nel cieco mondo",
cominciò il poeta tutto smorto.
15 "Io sarò primo, e tu sarai secondo".
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: "Come verrò, se tu paventi
18 che suoli al mio dubbiare esser conforto?".
Ed elli a me: "L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
21 quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne".
Così si mise e così mi fé intrare
24 nel primo cerchio che l’abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
27 che l’aura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
30 d’infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: "Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
33 Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
36 ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
39 e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
42 che sanza speme vivemo in disio".
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
45 conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
"Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore",
comincia’ io per voler esser certo
48 di quella fede che vince ogne errore:
"uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?".
51 E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
rispuose: "Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
54 con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
57 di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
60 e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
63 spiriti umani non eran salvati".
Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
66 la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
69 ch’emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
72 ch’orrevol gente possedea quel loco.
"O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
75 che dal modo de li altri li diparte?".
E quelli a me: "L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
78 grazïa acquista in ciel che sì li avanza".
Intanto voce fu per me udita:
"Onorate l’altissimo poeta;
81 l’ombra sua torna, ch’era dipartita".
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
84 sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
"Mira colui con quella spada in mano,
87 che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
90 Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
93 fannomi onore, e di ciò fanno bene".
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
96 che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
99 e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
102 sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
105 sì com’era ’l parlar colà dov’era.
Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
108 difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
111 giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
114 parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
117 sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
120 che del vedere in me stesso m’essalto.
I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
123 Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte, vidi ’l re Latino
126 che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
129 e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
132 seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ïo Socrate e Platone,
135 che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito, che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
138 Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
141 Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
144 Averoìs, che ’l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
147 che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
150 fuor de la queta, ne l’aura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.

PARAFRASI
Posto fra due cibi, ugualmente distanti e ugualmente allettanti, l’uomo dotato di libero arbitrio morirebbe di fame prima di portarne uno ai denti; allo stesso modo starebbe immobile un agnello tra due lupi affamati e feroci, temendo nella stessa misura l’uno e l’altro; Cosi se ne starebbe un cane tra due daini ( senza inseguirne alcuno): perciò, per il fatto che io tacessi, non mi biasimo, né mi vanto, perché non potevo farne a meno.essendo io premuto in ugual misura dai miei dubbi (e impedito di fare una libera scelta). lo me ne stavo zitto, ma il mio desiderio mi era dipinto in volto. e con il desiderio la domanda assai più efficace che non se l’avessi espressa esplicitamente . Beatrice agì con me come fece Daniele con Nabucodonosor, quando lo liberò dall’ira, che l’aveva reso ingiustamente crudele:Il profeta Daniele, per ispirazione divina, indovinò ed interpretò un sogno che il re Nabucodonosor aveva fatto e dimenticato, e che i sapienti babilonesi non riuscivano a indovinare, per cui il re, adirato, aveva dato ordine di ucciderli (Daniele II, 1-45). Come Daniele aveva ricevuto da Dio la rivelazione necessaria, così Beatrice può leggere in Dio i dubbi che angustiano Dante. L'aver incontrato Piccarda, Costanza e altre anime nel cielo della Luna sembra a Dante una conferma della tesi sostenuta da Platone (Timeo 41 d sgg.), secondo la quale l'anima preesiste al corpo e dimora in una stella prima di essere inviata a vivíficare la materia corporea; dopo la morte dell'individuo ritorna alla sua stella, se nuove colpe non la condannano a reincarnarsi in un corpo inferiore. Poiché questa posizione è assolutamente contraria alla dottrina cattolica, la quale afferma che l'anima è creata da Dio quando viene infusa nel corpo, dal quale si separa con la morte per andare al premio o al castigo meritato, Beatrice la discute per prima (versi 26-27), esponendo l'ordinamento morale del Paradiso. e disse: “ lo vedo chiaramente come due dubbi (di ugual forza) ti stimolano a chiedere, in modo che la tua ansia ( di risolverli entrambi ) impaccia se stessa così che non riesce a manifestarsi .Tu ragioni così: “Se la buona volontà persevera nel proposito fatto, per quale motivo la violenza altrui (impedendomi di osservarlo) mi diminuisce la quantità del merito?” Ti dà motivo di ulteriore dubbio il fatto che le anime, secondo l’opinione di Platone, sembrano ritornare ( dopo la morte del corpo) nei cieli. Questi sono i dubbi che premono con uguale forza sulla tua volontà; e pertanto risponderò prima a quello che è più pericolosoLe parole di Beatrice - queste son le question e pria tratterò quella... - autorizzano il lettore ad aspettare una sottile indagine filosofico-morale intorno ai due dubbi di Dante. E in effetti il contenuto del canto IV è squisitamente dottrinale, così che la trepida figura di Piccarda e la luce della gran Costanza sembrano davvero svanite come per acqua cupa cosa grave, senza lasciare traccia. Anche l'immagine folgorante di luce e di amore di Beatrice, con la quale si era chiusa il canto precedente, lascia il posto a una figura rigidamente chiusa nelle sue argomentazioni, che affronta per Dante il problema delle anime che hanno mancato nell'adempimento dei voti. Tuttavia questa impressione di austerità dottrinale, che neppure le tre metafore iniziali, di accentuato vigore drammatico, riescono ad ammorbidire, è destinata a scomparire nelle terzine seguenti, le quali, se rícorderanno appena Piccarda e Costanza, riproporranno tuttavia la luminosa figura di Beatrice (versi 118-120 e 139-140) e lo smarrimento contemplativo di Dante (versi 141-142): due elementi di sicura vìbrazìone lirica tutte le volte che appaiono nella trama del Paradiso. Non è una poesia di sicura presa, che svolga con decisione e continuità il motivo sentimentale-psicologico-affettivo che Dante ha presentato in tante pagine dell'Inferno e del Purgatorio, e che è tornato a riproporre nel canto III del Paradiso, e nemmeno una poesia che faccia perno su una figura monografica o su un intenso svolgimento dell'azione. I due interlocutori appaiono immobili, non c'è intorno danza o canto di beati, i loro interventi si susseguono nel ritmo della domanda e risposta, eppure le loro parole rivelano una disposizione interiore eccezionale: Dante tutto teso alla conquista della suprema verità, Beatrice trasfigurata dalla gioia di chi sa di comunicare la verità. A un'altra manifestazione - diversa da quella di Piccarda, meno adatta a toccare le corde del cuore, ma non per questo meno valida - del senso e dell'ansia del divino che strutturano la cantica. Questa tensione spirituale, per cui la conquista della verità è presentata come lotta, come drammatico «rampollare» di dubbi (cfr. versi 130-132), spiega il linguaggio attivo che caratterizza il canto, il procedere immediato e sicuro, la chiarezza e la forza del singolo termine, capace di racchiudere, nel suo breve giro, il significato di un intero concetto. Infatti, nella misura in cui nei beati i lineamenti del corpo si assottigliano, i ricordi terreni si dissolvono, e la presenza del tema filosofico e mistico diventa predominante, subentra nel Poeta la preoccupazione di sostenere con la materialità e la concretezza del linguaggio un mondo che altrimenti diverrebbe troppo sfumato o troppo astratto.Quello dei Serafini che sta più vicino a Dio, Mosè, Samuele, e quello dei due Giovanni che preferisci, e neppure, dico, la Vergine Maria,

TERZO CANTO

"Per per si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
3 per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
6 la somma sapïenza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
9 Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".
Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo di una porta;
12 per ch’io: "Maestro, il senso lor m’è duro".
Ed elli a me, come persona accorta:
"Qui si convien lasciare ogne sospetto;
15 ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
18 c’hanno perduto il ben de l’intelletto".
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
21 mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
24 per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
27 voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
30 come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: "Maestro, che è quel ch’i’ odo?
33 e che gent’è che par nel duol sì vinta?".
Ed elli a me: "Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
36 che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
39 né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
42 ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli".
E io: "Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?".
45 Rispuose: "Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
48 che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
51 non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
54 che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
57 che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
60 che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
63 a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
66 da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
69 da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
72 per ch’io dissi: "Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
75 com’i’ discerno per lo fioco lume".
Ed elli a me: "Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
78 su la trista riviera d’Acheronte".
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
81 infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
84 gridando: "Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
87 ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti".
90 Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: "Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
93 più lieve legno convien che ti porti".
E ’l duca lui: "Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
96 ciò che si vuole, e più non dimandare".
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
99 che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
102 ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
105 di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
108 ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
111 batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
114 vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
117 per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
120 anche di qua nuova schiera s’auna.
"Figliuol mio", disse ’l maestro cortese,
"quelli che muoion ne l’ira di Dio
123 tutti convegnon qui d’ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
126 sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
129 ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona".
Finito questo, la buia campagna
tremò si forte, che de lo spavento
132 la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
136 e caddi come l’uom cui sonno piglia.

PARAFRASI
«Attraverso me si entra nella città dolorosa, nel dolore che mai avrà termine, tra le anime dannate. Dio, mio eccelso creatore, fu mosso dalla giustizia: sono opera del Padre (la divina potestate), del Figlio (la somma sapienza) e dello Spirito Santo ('I primo amore). Prima di me non fu creata nessuna cosa se non eterna, e io durerò fino alla fine dei tempi. Abbandonate, entrando, ogni speranza ». Vidi questa sentenza dal minaccioso significato. incisa in cima a una porta; per cui mi rivolsi a Virgilio: « Maestro, ciò che essa dice per me è terribile ». Ed egli, da persona perspicace qual era: « A questo punto occorre abbandonare ogni esitazione; ogni forma di pusillanimità deve ora sparire. Siamo giunti dove ti dissi che avresti veduto le anime doloranti che hanno perduto la speranza di vedere Dio ». Ivi echeggiavano nell'aria senza luce gemiti, pianti e acuti lamenti, tanto che (udendoli) per la prima volta ne piansi. Differenti lingue, orribili pronunce, espressioni di dolore, esclamazioni di rabbia, grida acute e soffocate, miste al percuotersi delle mani l'una contro l'altra creavano nell'aria buia, priva di tempo, una confusione eternamente vorticante, così come (rapida vortica) la sabbia quando soffia un vento turbinoso. E io che avevo la testa attanagliata dall'orrore, esclamai: "Maestro, che significano queste grida? che gente è questa, che appare così sopraffatta dal dolore ?" E Virgilio: "Questa infelice condizione è propria delle anime spregevolì di quelli che vissero senza meritare né biasimo né lode. Sono mescolate alla malvagia schiera degli angeli che (in occasione della rivolta di Lucifero) non si ribellarono né rimasero fedeli a Dio, ma fecero parte a sé. Perché il loro splendore non ne sia offuscato, i cieli li tengono lontani da sé, né in sé li accoglie la voragine infernale, perché i colpevoli (gli angeli che parteggiarono per Lucifero) avrebbero di che vantarsi rispetto ad essi " . Ed io: "Maestro, cosa riesce loro così insopportabile, da farli prorompere in così disperati lamenti?" Rispose: "Te lo dirò in pochissime parole. Costoro non possono sperare in un completo annullamento del loro essere (cioè nella morte dell'anima) e (d'altra parte) la loro vita senza scopo è tanto miserabile, da renderli invidiosi di qualsiasi altro destino. Il mondo non lascia sussistere alcun ricordo di loro; Dio non li degna né della sua pietà né di una sentenza di condanna non parliamo di loro, ma osserva e va oltre ". E io, guardando con maggiore attenzione, scorsi un vessillo che girava correndo così velocemente, da sembrare incapace di una qualsiasi forma di quiete; e dietro ad esso avanzava una tale moltitudine, quale mai avrei immaginato fosse stata annientata dalla morte. Dopo aver ravvisato qualcuno nella folla, vidi e riconobbi l'anima di colui che per pusillanimità rifiutò il trono papale (fece per viltà il gran rifiuto). Compresi allora d'un tratto e fui sicuro che questa era la turba dei vili, sgraditi a Dio non meno che ai suoi nemici (i diavoli). Questi miserabili, che vissero come se non fossero vivi (in quanto non seppero affermare la loro personalità), erano nudi, continuamente punti da mosconi e da vespe che si trovavano lì. Esse rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lagrime, era succhiato ai loro piedi da vermi nauseabondi. E dopo aver spinto il mio sguardo più in là, vidi sulla riva di un gran fiume una folla; perciò interpellai Virgilio: "Maestro, consentimi di apprendere chi sono queste genti, e quale consuetudine le fa apparire così ansiose di passare sull'altra riva, come intravedo attraverso la debole luce". Virgilio mi rispose: « Le cose ti saranno note (conte: conosciute) quando fermeremo i nostri passi presso il doloroso fiume Acheronte ». Allora, con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che il mio discorso gli riuscisse fastidioso, cessai di parlare finché arrivammo al fiume. E (dopo essere qui giunti) ecco dirigersi alla nostra volta, su un'imbarcazione, un vecchio, canuto (bianco per antico pelo), che gridava: « Sventura a voi, anime malvage ! Non illudetevi di poter più vedere il cielo: vengo per traghettarvi sull'altra riva nel buio eterno, nel fuoco e nel ghiaccio. E tu che, ancora in vita, ti trovi con loro, allontanati dalla turba dei già morti». Ma dopo aver visto che non me n'andavo, continuò: « Attraverso vie e luoghi di imbarco diversi giungerai alla riva, che non è questa, da dove sarai traghettato (per passare): una barca più leggiera ti dovrà trasportare ». E Virgilio gli disse: « Non te n'avere a male, o Caronte: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole (è la decisione divina presa nel cielo Empireo, dove tutto ciò che è voluto può avere immediata attuazione), e non chiedere altro ». Da questo istante si calmarono le gote ricoperte di fluente barba del traghettatore del buio fiume (livida palude: livido è, per antonomasia, il colore della morte), che aveva intorno agli occhi cerchi di fuoco. Ma quelle anime, che erano affrante e inermi, trascolorarono e batterono i denti, non appena ebbero udite le crudeli parole: maledicevano Dio e i loro genitori, il genere umano e il luogo e il tempo (in cui erano state generate) e l'origine della loro stirpe e della loro nascita. Poi si adunarono tutte insieme, piangendo dirottamente, sulla riva del fiume del male che aspetta tutti coloro che non temono Dio. II demonio Caronte, con occhi fiammeggianti, facendo loro segni, le accoglie tutte (nella barca); percuote col remo chiunque tarda (ad obbedirgli). Come in autunno le foglie si staccano l'una dopo l'altra (dal ramo), finché questo vede sparsa a terra tutta la sua veste frondosa, allo stesso modo la corrotta progenie di Adamo si precipita da quella riva, anima dopo anima, a un cenno (di Caronte), come il falco (auge!) al richiamo (del falconiere). Avanzano così sull'acqua buia, e prima che questa moltitudine sia sbarcata sulla riva opposta, un'altra già s'accalca nel punto d'imbarco. « Figlio mio », spiegò cortesemente Virgilio, « tutti coloro che muoiono in stato di peccato (nell'ira di Dio) si radunano qui (venendo) da ogni luogo della terra: e sono (spiritualmente) disposti a varcare il fiume, poiché la giustizia di Dio li stimola, in modo che il timore (delle pene) si converte in loro nel desiderio (di affrontarle). Di qui non passano mai anime virtuose: e perciò, se Caronte si lamenta della tua presenza, puoi ben comprendere ormai quale significato hanno le sue parole.» Appena Virgilio ebbe finito di parlare, la terra buia tremò con tanta violenza, che il ricordo (la mente: la memoria) dello spavento provato m'inonda ancora di sudore. Dalla terra bagnata dalle lagrime dei dannati uscì un vento, che si convertì in un lampo sanguigno il quale mi fece perdere i sensi; e caddi come chi cede al sonno.

SECONDO CANTO

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
3 da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
6 che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
9 qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: "Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
12 prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
15 secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
18 ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
21 ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
24 u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
27 di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
30 ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
33 me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
36 Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono".
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
39 sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
42 che fu nel cominciar cotanto tosta.
"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
45 "l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
48 come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
51 nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
54 tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
57 con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
60 e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
63 sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
66 per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
69 l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
72 amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
75 Tacette allora, e poi comincia’ io:
"O donna di virtù, sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
78 di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
81 più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
84 de l’ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
87 "perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
90 de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
93 né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
96 sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
99 di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
102 che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
105 ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
108 su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
111 com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
114 ch’onora te e quei ch’udito l’hanno".
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
117 per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
120 che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
123 perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
126 e ’l mio parlar tanto ben ti promette?".
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
132 ch’i’ cominciai come persona franca:
"Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
135 a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
138 ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro".
141 Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.

PARAFRASI
Il giorno finiva, e l’ oscurità faceva interrompere ai vivi in terra le loro fatiche; io solo mi preparavo a sostenere il travaglio fisico e morale (del viaggio), che la memoria, esatta nel trascrivere ciò che ha appreso, narrerà. O Muse, o mia forza intellettuale, soccorretemi; o memoria, che porti impressa in te la mia visione, qui apparirà il tuo valore. Io cominciai con queste parole: "Poeta, mia guida, guarda se le mie capacità sono sufficienti, prima di affidarmi all’arduo passaggio. (Nell’Eneide) tu narri che il padre di Silvio (cioè Enea, che generò Silvio da Lavinia), mentre era ancora in vita, andò nel mondo dei morti (immortale: perché in esso le anime hanno vita eterna), e fece ciò in carne e ossa. Ma, se Dio (l’avversario d’ogni male) fu con lui cortese, riflettendo sull’importanza dei risultati ( Roma, la sua storia, il suo impero) che avrebbero avuto in Enea la loro origine, e sulle sue qualità personali e sulla sua stirpe regale, la cosa non appare ingiustificata a chi ragiona; poiché egli fu prescelto da Dio come capostipite della nobile Roma e del suo impero: Roma e il suo impero, se vogliamo essere esatti, furono costituiti da Dio per preparare il luogo sacro dove ha sede il pontefice, successore del grande Pietro. A causa di questa discesa ( nel regno dei morti), di cui (nel tuo poema) lo hai considerato degno, apprese fatti (il padre Anchise gli pronosticò il felice esito dei suoi travagli e la grandezza di Roma) che furono le premesse della sua vittoria (nella guerra contro i Latini e i loro alleati) e dell’autorità papale. La seconda discesa nell’oltretomba è quella di San Paolo, l’eletto da Dio, il quale vi andò per trarne forza per la diffusione della fede cristiana, senza la quale la salvezza è impossibile. Ma qual è il motivo per il quale io devo intraprendere questo viaggio? chi mi autorizza a farlo? Non sono né Enea né San Paolo: né io mi ritengo all’altezza del compito, né qualcun altro me ne ritiene degno. Perciò, se, per quel che riguarda questo viaggio, m’induco ad acconsentire, temo che la mia venuta (nell’oltretomba) sia temeraria: sei saggio; sei in grado di comprendere meglio di quanto io non sia in grado di esprimermi E nello stato d’animo di chi cessa di volere ciò che ha voluto prima e cambia intento per il sopraggiungere di nuovi pensieri, in modo da scostarsi dal proposito iniziale, venni a trovarmi io su quel buio pendio (e scesa nel frattempo la notte), perché portai a termine, col pensiero ( prevedendone tutti gli ostacoli e rendendomi conto della sua folle temerarietà), l’impresa cui mi ero accinto con tanta baldanza. "Se ho capito bene il tuo discorso" rispose l’ombra di Virgilio, "il tuo animo è fiaccato dalla pusillanimità: essa molte volte ostacola l’uomo tanto da allontanarlo da un’impresa onorata, così come una ingannevole apparenza fa volgere indietro una bestia quando si adombra. Perché tu ti liberi da questo timore, ti esporrò il motivo per cui sono venuto (in tuo aiuto) e ciò che udii quando per la prima volta sentii pietà per il tuo stato. Mi trovavo (nel limbo) tra coloro che sono in una condizione intermedia tra i beati e i dannati al fuoco eterno, quando fui chiamato da una donna di tale bellezza e soffusa di tanta letizia, da essere indotto a pregarla di comandare. La luce dei suoi occhi vinceva quella delle stelle; e cominciò a parlarmi dolcemente e pacatamente, con voce d’angelo: "O cortese anima mantovana, la cui fama dura ancora fra gli uomini, ed è destinata a durare tanto a lungo quanto durerà il mondo, colui che è amato da me, ma non dalla sorte, ha trovato tali ostacoli sul deserto pendio del colle, che si è già volto indietro per la paura; il mio timore è che egli si sia a tal punto nuovamente perduto (nel buio del peccato), da rendere ormai tardivo (e quindi inutile) il mio aiuto, per quel che di lui mi è stato riferito in cielo. Va dunque, e aiutalo sia con la tua eloquenza sia con tutto ciò che altrimenti occorra per la sua salvezza, in modo da rendermi contenta. Io, che ti invito ad andare, sono Beatrice; vengo dal cielo, dove desidero tornare; sono stata spinta (fin qui) da amore e amore ha ispirato le mie parole. Quando sarò davanti a Dio, spesso Gli parlerò degnamente di te." Allora tacque, e poi io cominciai: "O signora di virtù, per la quale virtù soltanto il genere umano è superiore ad ogni altro essere contenuto dal cielo (quello della Luna) che compie (nel suo moto di rotazione intorno alla terra) i giri più piccoli, il tuo comando mi è così gradito, che, se anche avessi iniziato ad obbedirti, mi sembrerebbe pur sempre d’aver fatto tardi; più non occorre che tu mi manifesti: il tuo volere. Dimmi piuttosto il motivo per cui non temi di scendere qua in basso, nel centro dell’universo ( occupato appunto dall’inferno), dal luogo sconfinato (I’Empireo), dove bruci dal desiderio di ritornare." "Poiché vuoi penetrare tanto in profondità con la tua mente, ti dirò in breve perché non temo di scendere nell’inferno" mi rispose. Conviene temere soltanto quelle cose che possono arrecare danno; le altre no, poiché non sono temibili. Dio mi creò, per sua grazia,tale che la vostra miseria di peccatori non mi tocca, né possono attaccarmi le fiamme infernali. Nel cielo una donna gentile (la Vergine) ha compassione per queste difficoltà verso le quali io ti mando (a liberare Dante), tanto da mitigare la severità della giustizia divina. Questa chiamò Lucia e disse: "Il tuo fedele ha ora bisogno di te, ed io a te lo raccomando". Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse, e venne dove io sedevo insieme all’antica Rachele. Parlò: - Beatrice, vera gloria di Dio (loda: lode, in quanto la sua perfezione torna a gloria di chi la creò), perché non aiuti chi tanto ti amò, colui che, per amor tuo, seppe elevarsi sulla turba dei mediocri? non odi il suo pianto angoscioso? non vedi il pericolo della dannazione che lo assale sul fiume (del peccato), sul quale il mare non può vantare la sua forza? Sulla terra non ci furono mai persone così pronte a perseguire il loro utile e a evitare ciò che potesse danneggiarle, come fui pronta io, dopo che tali parole mi furono dette, nello scendere fin quaggiù dal mio seggio di beata, confidando nella tua nobile eloquenza, che onora sia te sia quelli che l’hanno intesa (traendone profitto spirituale)." Dopo avermi dette queste cose, volse verso di me gli occhi lucidi di lagrime; e per questo mi rese più sollecito a venire (dove tu eri); e come Beatrice volle venni da te; ti portai via dal cospetto della lupa, che t’aveva impedito di raggiungere per la via più breve la cima del colle. Che hai dunque? perché, perché indugi ? perché accogli in cuore tanta pusillanimità? perché non hai coraggio e schietta fiducia in te stesso? dal momento che tre beate tanto potenti perorano la tua causa davanti al tribunale di Dio, e che le mie parole promettono (al tuo viaggio) un esito così felice? " Come i gracili fiori, prostrati a terra con le corolle serrate per difendersi dal freddo della notte, appena li rischiara all’alba il primo raggio di sole si ergono sui loro steli con le corolle tutte aperte, così mi ripresi dal mio precedente stato di abbattimento, e tanto coraggio entrò nel mio animo, che cominciai (a parlare) libero da ogni timore: "Oh misericordiosa colei che mi venne in aiuto! e te generoso, che non hai tardato a prestare obbedienza alle veritiere parole che ti indirizzo! Col tuo ragionamento mi hai a tal punto predisposto l’animo con desiderio al viaggio, che sono tornato ad avere l’intenzione che avevo in origine. Incamminati dunque, poiché un’unica volontà ci governa: siimi guida, padrone, maestro. " Cosi parlai; ed essendosi egli avviato, entrai (dietro a lui) nell’arduo e orrido cammino.