martedì 12 maggio 2009

CANTO VENTICINQUESIMO

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
3 gridando: "Togli, Dio, ch’a te le squadro!".
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
6 come dicesse "Non vo’ che più diche";
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
9 che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
12 poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
15 non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
18 venir chiamando: "Ov’è, ov’è l’acerbo?".
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
21 infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
24 e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: "Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
27 di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
30 del grande armento ch’elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
33 gliene diè cento, e non sentì le diece".
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
36 de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: "Chi siete voi?";
per che nostra novella si ristette,
39 e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
42 che l’un nomar un altro convenette,
dicendo: "Cianfa dove fia rimaso?";
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
45 mi puosi ’l dito su dal mento al naso.
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
48 ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
51 dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,
e con li anterïor le braccia prese;
54 poi li addentò e l’una e l’altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
57 e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
60 per l’altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
63 né l’un né l’altro già parea quel ch’era:
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
66 che non è nero ancora e ’l bianco more.
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: "Omè, Agnel, come ti muti!
69 Vedi che già non se’ né due né uno".
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
72 in una faccia, ov’eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
75 divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
78 parea; e tal sen gio con lento passo.
Come ’l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
81 folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
84 livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
87 poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
90 pur come sonno o febbre l’assalisse.
Elli ’l serpente, e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
93 fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov’ e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
96 e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
99 converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
102 a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
105 e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
108 non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
111 si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
114 tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di retro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
117 e ’l misero del suo n’avea due porti.
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
120 per l’una parte e da l’altra il dipela,
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
123 sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
126 uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
129 e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
132 come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
135 ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
138 e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: "I’ vo’ che Buoso corra,
141 com’ho fatt’io, carpon per questo calle".
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
144 la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
147 non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
150 che venner prima, non era mutato;
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

PARAFRASI
Non appena ebbe finito di parlare il ladro levò entrambi i pugni col pollice sporgente fra l’indice e il medio, gridando: " Prendi, Dio, poiché rivolgo a te questo gesto! " Da allora in poi i serpenti mi diventarono cari, poiché uno gli si attorcigliò in quello stesso istante al collo, come per dire "Non voglio che parli oltre", ed un altro alle braccia, e lo legò nuovamente, congiungendo con tale forza capo e coda sul suo davanti, che (il dannato) non poteva con esse fare alcun movimento. Ahi Pistoia, Pistoia, perché non decidi di ridurti in cenere in modo da non esistere più, dal momento che superi nel fare il male i tuoi fondatori ? In nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso Dio, neppure colui (Capaneo) che precipitò dall’alto delle mura di Tebe. Quello fuggì senza più dire parola; ed io scorsi un centauro gonfio d’ira avanzare gridando: " Dov’è, dov’è quel ribelle ? " Non credo che la Maremma abbia tante serpi, quante quello aveva sulla groppa fin dove cominciano le fattezze umane. Sopra le sue spalle, dietro la nuca, stava un drago con le ali aperte; e questo investiva col fuoco chiunque s’imbatteva in lui, Virgilio disse: " Costui è Caco, il quale nella spelonca sul monte Aventino molte volte fu autore di sanguinose stragi. Non percorre la medesima strada dei suoi simili (posti a guardia del primo girone dei violenti) a causa del furto che compì con l’inganno della grande mandria che ebbe a portata di mano; per questo le sue azioni scellerate ebbero termine sotto la clava di Ercole, il quale probabilmente gli assestò cento colpi, mentre egli non riuscì a sentirne nemmeno dieci ". Mentre diceva queste cose, ecco che Caco passò oltre e tre ombre vennero sotto il luogo in cui ci trovavamo, delle quali né io né Virgilio ci accorgemmo, se non quando gridarono: "Chi siete?": onde il nostro discorrere cessò, e da quel momento in poi facemmo attenzione soltanto a loro. Io non li riconoscevo; ma accadde, come suole accadere casualmente, che uno di loro dovesse fare il nome di un altro, dicendo: "Dove sarà rimasto Cianfa? ": per la qual cosa io, affinché Virgilio prestasse attenzione, gli feci segno di tacere. Se tu ora, lettore, sei restio a credere ciò che dirò, non sarà cosa strana, dal momento che io, che ne fui spettatore, consento a malapena a me stesso di crederlo. Mentre tenevo gli occhi rivolti verso di loro, ecco che un serpente con sei piedi si scaglia contro uno di loro, e aderisce a lui interamente. Con i piedi centrali gli serrò il ventre, e con quelli anteriori gli afferrò le braccia; poi gli morsicò entrambe le guance; stese i piedi posteriori lungo le cosce, e fra queste infilò la coda, e la tese nuovamente su per il suo dorso. Edera non fu mai a tal punto stretta ad un albero, come il mostro spaventoso avvinse le sue membra a quelle dei dannato. Dopo che si fusero insieme come fossero stati di cera calda, e mescolarono i loro colori, né l’uno né l’altro sembrava più quello di prima, come sulla superficie della carta si muove, precedendo la fiamma, un colore scuro che non è ancora nero e non è più bianco. Gli altri due lo osservavano attentamente, e ciascuno gridava: " Ahimè, Agnolo, come, ti trasformi ! Vedi che ormai non sei né due figure né una sola ". Le due teste erano già divenute una sola, allorché ci apparvero due aspetti fusi in un unico volto, nel quale erano due esseri che avevano smarrito la propria fisionomia. Dall’ unione di quattro strisce (le braccia dell’uomo ed i piedi anteriori del serpente) ebbero origine le braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto divennero membra mai vedute prima d’allora. Ogni sembianza precedente era li cancellata: la figura deforme aveva l’aspetto di due cose e di nessuna; e così se ne andò con lenta andatura. Come il ramarro sotto la grande sferza del sole nei giorni della Canicola (dal 21 luglio al 21 agosto), nel passare da una siepe all’altra, sembra un fulmine se attraversa la strada, così appariva, nel dirigersi verso i ventri degli altri due, un piccolo serpente infuriato, scuro e nero come un granello di pepe; e trafisse ad uno di loro quel punto del corpo attraverso il quale, quando siamo nel grembo materno, riceviamo il cibo; poi cadde disteso per terra davanti a quello. Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava proprio come se fosse preso da sonno o febbre. Egli guardava il serpente, e questo (guardava) lui; l’uno attraverso la ferita, e l’altro attraverso la bocca emettevano un fumo denso, e i due fumi si mescolavano incontrandosi. Più non si vanti Lucano per il passo in cui tratta dell’infelice Sabello e di Nassidio, e ascolti attentamente ciò che ora esce dalla mia fantasia. Più non si vanti Ovidio a proposito di Cadmo e di Aretusa; poiché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, io non lo invidio; mai infatti egli trasformò due esseri posti l’uno di fronte all’altro in modo che le forme di entrambi fossero in grado di scambiarsi la loro materia. (Le due nature) si corrisposero l’una all’altra secondo questa regola, il serpente divise la sua coda in forma di forca, e il trafitto unì insieme i suoi piedi. Le gambe, e nel medesimo tempo le cosce, si fusero insieme a tal punto, che in breve la linea d’unione non mostrava più alcun segno che fosse visibile. La coda divisa prendeva la forma che si perdeva nell’uomo, e la sua pelle diveniva morbida (come quella dell’uomo), mentre quell’altra s’induriva (come quella del serpente). Vidi le braccia ritirarsi attraverso le ascelle, e i due piedi della bestia, che erano corti, allungarsi tanto quanto quelle si accorciavano. Poi i piedi posteriori, attorcigliati l’uno all’altro, si trasformarono nel membro che l’uomo nasconde, e l’ infelice dal suo membro aveva fatto uscire due piedi. Mentre il fumo ricopriva di nuovo colore sia l’uno che l’altro, e faceva spuntare il pelo sul serpente privandone l’uomo, uno si alzò (quello che era serpente) e l’altro (quello che era uomo) piombò a terra, senza che per questo l’uno distogliesse dall’altro gli occhi malvagi, sotto i quali ognuno mutava volto. Quello che era in piedi, ritirò il suo muso verso le tempie, e per l’eccessiva materia che in quella parte della testa si raccolse, vennero fuori dalle gote, che in precedenza ne erano prive, le orecchie: ciò che di quell’eccesso di materia non si ritirò e rimase dov’era, formò il naso per il volto, e ingrossò le labbra quanto fu necessario. Quello che stava disteso a terra, aguzzò il proprio volto, e ritirò le orecchie dentro la testa, come la lumaca fa con le sue corna; e la lingua, che in precedenza aveva avuto tutta d’un pezzo e pronta a parlare, si divise, mentre quella biforcuta nell’altro divenne unita; e il fumo cessò. Lo spirito che si era trasformato in serpente, fuggì sibilando per la bolgia, e l’altro parlando sputò dietro di lui. Quindi gli voltò le spalle formale da poco, e disse all’altro (al ladro che non ha subìto metamorfosi): "Voglio che Buoso corra carponi per questo sentiero, come ho fatto io". Vidi in tal modo i dannati della settima bolgia trasformarsI e scambiarsi le fattezze; e a questo proposito la straordinarietà dell’argomento valga a scusarmi, se il mio scrivere manca un poco di chiarezza. E sebbene i miei occhi fossero alquanto disorientati, e l’animo sgomento, quei due non poterono allontanarsi tanto di nascosto, che io non riuscissi a distinguere chiaramente Puccio Sciancato; ed era il solo, dei tre dannati che prima erano sopraggiuntí insieme, che non aveva subìto trasformazioni: l’altro era quello a causa del quale, tu, Gaville, ti lamenti.

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