martedì 12 maggio 2009

CANTO VENTISETTESIMO

Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
3 con la licenza del dolce poeta,
quand’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
6 per un confuso suon che fuor n’uscia.
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
9 che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
12 pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
15 si convertïan le parole grame.
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
18 che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: "O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
21 dicendo "Istra ten va, più non t’adizzo",
perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
24 vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
27 latina ond’io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
30 e ’l giogo di che Tever si diserra".
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
33 dicendo: "Parla tu; questi è latino".
E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
36 "O anima che se’ là giù nascosta,
Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
39 ma ’n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
42 sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
45 sotto le branche verdi si ritrova.
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
48 là dove soglion fan d’i denti succhio.
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
51 che muta parte da la state al verno.
E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte
54 tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
57 se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte".
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
60 di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
"S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
63 questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
66 sanza tema d’infamia ti rispondo.
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
69 e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
72 e come e quare, voglio che m’intenda.
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
75 non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
78 ch’al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
81 calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
84 ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
87 e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
90 né mercatante in terra di Soldano,
né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
93 che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
96 così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
99 perché le sue parole parver ebbre.
E’ poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
102 sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
105 che ’l mio antecessor non ebbe care".
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
108 e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
111 ti farà trïunfar ne l’alto seggio".
Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
114 li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
117 dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
120 per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
123 tu non pensavi ch’io löico fossi!".
A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
126 e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: "Questi è d’i rei del foco furo";
per ch’io là dove vedi son perduto,
129 e sì vestito, andando, mi rancuro".
Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
132 torcendo e dibattendo ’l corno aguto.
Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
135 che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.

PARAFRASI
La fiamma si era già raddrizzata e stava ferma perché più non parlava, e già si allontanava da noi col permesso del caro Virgilio, quando un’altra, che sopraggiungeva dietro di lei, ci fece volgere lo sguardo verso la sua punta a causa di un mormorio che da essa proveniva. Come il toro siciliano che muggì per la prima volta, e ciò fu cosa giusta, con il lamento di colui che l’aveva costruito con i suoi arnesi, muggiva con il gemito del martirizzato, tanto che, sebbene fosse fatto di rame, sembrava che lui stesso soffrisse, così, non trovando all’inizio né una via né un’apertura attraverso il fuoco, le parole dolorose si mutavano nel suono di quest’ultimo. Ma dopo che ebbero trovato la loro via verso l’alto attraverso la punta, comunicandole quella vibrazione che la lingua aveva loro impresso mentre passavano, udimmo dire: " O tu al quale rivolgo la parola e che or ora parlavi in dialetto lombardo, dicendo "Adesso vattene; più non ti sprono a parlare", sebbene io sia arrivato forse un po’ tardi, non ti dispiaccia rimanere a parlare con me: vedi che a me non rincresce, eppure brucio! Se tu proprio ora sei precipitato nell’inferno da quella amata terra italiana dalla quale ho portato tutti i miei peccati, dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; perché io nacqui nei monti là tra Urbino e il giogo da cui scaturisce il Tevere ". Stavo ancora attento e chinato verso il fondo, allorché Virgilio mi toccò nel fianco (tentò di costa), dicendo: " Parla tu; costui è italiano (latino) ". Ed io, che ero già preparato a rispondere, presi a parlare senza indugio: " O anima che sei celata laggiù, la tua Romagna non è, e non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi signori; ma ora non vi lasciai alcun conflitto manifesto. Ravenna si trova nella condizione in cui è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta se la custodisce, in modo da coprire con le ali anche Cervia. La città (la terra: Forlì) che già sostenne il lungo assedio e fece una strage di Francesi. è ora sotto il dominio degli artigli verdi (degli Ordelaffi). E il vecchio Malatesta da Verrucchio e suo figlio, che fecero strazio di Montagna, là (a Rimini e nelle terre vicine) dove sono soliti farlo usano i denti a mo’ di succhiello. Le città bagnate dal Lamone (Faenza) e dal Santerno (Imola) sono governate dal piccolo leone in campo bianco, che cambia partito da una stagione all’altra. E Cesena che è bagnata dal Savio, così com’è sistemata tra la pianura e l’ Appennino, vive tra la tirannide e la libertà. Ora ti prego di raccontarci chi sei: non essere restio a parlare più che non lo sia stato io, se vuoi che il tuo nome abbia nel mondo una fama duratura ". Dopo che la fiamma ebbe alquanto rumoreggiato com’era solita fare, mosse la cima aguzza di qua e di là, e poi pronunciò tali parole : " Se io pensassi che la mia risposta fosse data a una persona che prima o poi tornasse sulla terra, questa fiamma sarebbe silenziosa; ma poiché da questo abisso mai alcuno ritornò vivo, se è vero ciò che mi si dice, ti rispondo senza timore d’essere coperto d’infamia. Fui guerriero, e poi frate francescano, ritenendo che, cinto da quel cordiglio, avrei riparato (alle mie colpe); e sicuramente ciò che io credevo si sarebbe avverato del tutto, se non fosse stato per il papa, che mal gliene incolga!, che mi ece ricadere nei peccati di prima; e voglio che tu ascolti in qual modo e perché. Finché fui il principio informativo (forma lui: in quanto anima, nel significato solito della Scolastica) del corpo che mi diede mia madre (cioè: finché fui vivo), le mie azioni non furono il risultato della forza, ma dell’astuzia (di volpe). Io conobbi tutte le astuzie e tutti i raggiri, e li usai così bene, che la loro fama raggiunse i confini del mondo. Quando mi accorsi di essere arrivato a quell’età (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e radunare le sartie, quello che prima mi era piaciuto, allora mi dispiacque, e dopo essermi pentito e confessato mi feci frate; ah povero infelice!, e ciò mi avrebbe giovato. Il capo (Bonifacio VIII) dei Farisei dei nostri giorni, conducendo una guerra vicino a Roma, e non contro Saraceni né contro Ebrei (cioè contro i nemici della religione cattolica), giacché ogni suo avversario era cristiano, ma nessuno era stato a conquistare Acri né a commerciare nel paese dei Sultano, non rispettò in sé né l’elevato incarico né gli ordini sacerdotali, né in me quel cordone francescano che rendeva un tempo più magro chi se ne cingeva. Ma come l’imperatore Costantino mandò a chiamare dalla grotta dei monte Soratte papa Silvestro I per essere guarito dalla lebbra, così quegli mi fece andare da lui come medico per guarirlo dalla febbre della sua superbia: mi chiese consiglio, e io tacqui, perché le sue parole mi sembrarono dissennate. Egli poi disse: "Non aver timore; t’assolvo fin d’ora, e tu indicami il modo di abbattere Palestrina. E’ in mio potere chiudere e aprire. come tu ben sai, il regno dei cieli; perciò due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V, che rinunciò al trono pontificio) rifiutò ". Allora i fondati argomenti mi spinsero là dove il silenzio mi parve la risoluzione peggiore, per cui dissi: "Padre, giacché tu mi assolvi da quella colpa in cui ora devo cadere, promettere molto e mantenere poco ti faranno trionfare (sui tuoi nemici) nell’eccelso tuo trono". Giunse poi San Francesco, non appena fui spirato, per prendere la mia anima; ma uno dei diavoli gli disse: "Non portarla via con te: non farmi torto. Egli deve venire nell’inferno tra i miei sudditi perché ha dato il consiglio ingannatore, dopo il quale sono stato sempre pronto ad afferrarlo per i capelli; non si può infatti assolvere chi non si pente. né è possibile pentirsi e peccare al tempo stesso perché è cosa contraddittoria ". Oh misero me! come trasalii quando mi ghermì dicendomi: "Forse non pensavi che io fossi logico!" Mi condusse da Minosse; e quello avvolse otto volte la coda intorno al suo duro dorso; e dopo essersela morsicata per la grande ira, disse: " Costui è uno dei peccatori che il fuoco sottrae alla vista"; perciò io sono dannato nel luogo che vedi, e così avvolto dalle fiamme, camminando, mi cruccio. " Quando ebbe così finito di parlare, la fiamma si allontanò gemendo di dolore, torcendo e dibattendo la punta aguzza. Noi proseguimmo oltre, sia io che Virgilio, su per il ponte fino al successivo che copre la bolgia nella quale è scontata la pena da parte di coloro che, suscitando discordia, si gravano del peso della colpa.

CANTO VENTISEIESIMO

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
3 e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
6 e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
9 di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
12 ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avean fatto iborni a scender pria,
15 rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
18 lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
21 e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
24 m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
27 la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
30 forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
33 tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
36 quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
39 sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
42 e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
45 caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;
48 catun si fascia di quel ch’elli è inceso".
"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
51 che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
54 dov’Eteòcle col fratel fu miso?".
Rispuose a me: "Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
57 a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
60 onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
63 e del Palladio pena vi si porta".
"S’ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego
66 e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
69 vedi che del disio ver’ lei mi piego!".
Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
72 ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
75 perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto".
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
78 in questa forma lui parlare audivi:
"O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
81 s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
84 dove, per lui, perduto a morir gissi".
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
87 pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
90 gittò voce di fuori, e disse: "Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
93 prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
96 lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
99 e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
102 picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
105 e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
108 dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
111 da l’altra già m’avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
114 a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
117 di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
120 ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
123 che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
126 sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
129 che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
132 poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
135 quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
138 e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
141 e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

PARAFRASI
Gioisci, Firenze, poiché sei così famosa, che voli per mare e per terra, e il tuo nome si diffonde per l’inferno! Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini di tale condizione che ne sento vergogna, e tu Firenze non ne sali in grande onore. Ma se nelle prime ore del mattino si sogna il vero (si credeva nel Medioevo che i sogni fatti all’alba fossero annunciatori di verità), tu proverai tra breve quello che Prato, per non dire di altri, ti augura. E se ciò fosse già avvenuto, non sarebbe troppo presto: così fosse già avvenuto, dal momento che deve pur accadere! perché sarò più duro da sopportare, quanto più invecchio. C’incamminammo, e Virgilio risalì per la scala formata dalle sporgenze rocciose che prima ci erano servite per scendere, e mi portò con lui; e mentre proseguivamo nella via solitaria, tra le pietre e i massi del ponte il piede non riusciva ad avanzare senza l’aiuto delle mani. Allora mi addolorai, e ora nuovamente mi addoloro allorché rivolgo il pensiero a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più di quello che non sia solito fare, perché non vada troppo senza la guida della virtù, in modo che, se un benefico influsso astrale o la grazia divina mi ha dato il dono dell’ingegno, io stesso non me lo tolga. Quante lucciole il contadino che si riposa sul colle, durante la stagione in cui il sole rimane più a lungo all’orizzonte, allorché alle mosche succedono le zanzare, vede giù per la valle, dove gli sembra di scorgere le sue vigne e i suoi campi, di altrettante fiamme splendeva tutta l’ottava bolgia, così come fui in grado di vedere non appena giunsi al centro del ponte da dove era visibile il fondo. E come colui che si vendicò per mezzo degli orsi vide il carro di Elia nel momento in cui si staccò da terra, quando i cavalli si impennarono verso il cielo, tanto che non lo poteva seguire con gli occhi, in modo da non vedere altro che la sola fiamma salire in alto, come una piccola nuvola. Così nel fondo della bolgia si muove ogni fiamma, poiché nessuna fa vedere quello che essa contiene, e ogni fiamma nasconde un dannato. Stavo sul ponte diritto in piedi per guardare, così che se non mi fossi afferrato a una sporgenza, sarei precipitato anche senza essere urtato. E Virgilio, che mi vide così intento a guardare, disse: " Le anime stanno dentro i fuochi; ciascuna è avvolta dalla fiamma che la brucia ". " Maestro ", risposi, " per il fatto che lo sento dire da te sono più sicuro, ma già pensavo che fosse così, e già volevo domandarti: chi c’è dentro a quella fiamma che avanza così divisa nella parte superiore, che sembra levarsi dal rogo dove Eteocle fu posto col fratello? " Mi rispose: " Dentro a quella fiamma sono tormentati Ulisse e Diomede, e così insieme subiscono la punizione di Dio, come insieme si esposero alla sua ira; e dentro alla loro fiamma si espia l’insidia del cavallo che aprì la porta dalla quale uscì Enea, il nobile progenitore dei Romani. In essa si espia l’astuzia a causa della quale, anche ora che è morta, Deidamia continua a lamentarsi di Achille, e si soffre il castigo a causa del Palladio ". " Se essi possono parlare da dentro quelle fiamme" dissi "maestro, ti prego e torno a pregarti, e possa la mia preghiera valerne mille, che tu non mi impedisca di aspettare, fino a quando quella fiamma a due punte sia giunta qui: guarda come dal desiderio mi chino verso di lei! " E Virgilio a me: " La tua richiesta merita un grande elogio, e io perciò l’approvo: ma fa che la tua lingua si trattenga dal parlare. Lascia parlare me, poiché ho capito ciò che desideri: perché essi, essendo stati Greci, forse eviterebbero di parlare con te ". Dopo che la fiamma giunse nel punto in cui Virgilio ritenne opportuno, io lo udii parlare in questo modo: " O voi che vi trovate in due dentro una sola fiamma, se io ebbi qualche merito nei vostri riguardi, mentre ero in vita, se io l’ebbi grande o piccolo quando in terra scrissi i nobili versi, sostate: e uno di voi racconti dove, per parte sua, smarritosi andò a morire. " La punta più alta dell’antica (da secoli circonda i due dannati) fiamma cominciò a scuotersi rumoreggiando proprio come quella che il vento agita; poi, muovendo di qua e di là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, getto fuori la voce, e disse: "Quando mi allontanai da Circe, che mi trattenne per oltre un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così, né la tenerezza per il figlio, né l’affetto riverente per il vecchio padre, né il dovuto amore che doveva rendere felice Penelope, poterono vincere dentro di me l’ardente desiderio che ebbi di conoscere il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini: ma mi spinsi per lo sconfinato alto mare solo con una nave, e con quella esigua schiera dalla quale non ero stato abbandonato. Vidi l’una e l’altra sponda fino alla Spagna, fino al Marocco, e alla Sardegna, e alle altre isole bagnate tutt’intorno da quel mare (il Mediterraneo ) . Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti nei nostri movimenti allorché giungemmo a quell’angusto stretto dove Ercole fissò i suoi limiti, affinché l’uomo non si avventuri oltre (Ercole, secondo il mito, piantò le rupi di Calpe e di Abila, l’una sulla sponda europea, l’altra su quella africana, perché, segnando i limiti del mondo esplorabile, nessuno osasse oltrepassarli ): lasciai alla mia destra Siviglia, alla mia sinistra ormai Ceuta (Setta: è l’antica Septa romana, sulla costa africana) mi aveva lasciato. "O fratelli", dissi, "che avete raggiunto il confine occidentale (il mondo finiva, per gli antichi, allo stretto di Gibilterra) attraverso centomila pericoli, a questo così breve tempo che ci rimane da vivere, non vogliate negare la conoscenza, seguendo il corso del sole, del mondo disabitato. Riflettete sulla vostra natura: non foste creati per vivere come bruti, ma per seguire la virtù e il sapere. " Con questo breve discorso resi i miei compagni così desiderosi di proseguire il viaggio, che a stento dopo sarei riuscito a fermarli; e rivolta verso Oriente la poppa della nostra nave, trasformammo i remi in ali per il viaggio temerario, sempre avanzando verso sinistra ( verso sud, ovest). Già la notte ci mostrava tutte le stelle dell’emisfero australe, e (ci mostrava) invece il nostro (emisfero) così basso. che non si alzava al di sopra della superficie del mare. Cinque volte si era accesa e altrettante spenta (erano passati cinque mesi) la luce che la luna mostra nella sua parte inferiore, da quando avevamo iniziato il nostro difficile viaggio, allorché ci apparve una montagna, scura a causa della distanza, e mi sembrò tanto alta come non ne avevo mai veduta alcuna. Noi gioimmo, e subito la nostra gioia si mutò in disperazione: perché dalla terra da poco avvistata sorse un vento vorticoso, che investì la prua della nave. Tre volte la fece girare insieme con le acque circostanti: alla quarta fece levare la poppa in alto e sprofondare la prua, come volle Dio, finché il mare si richiuse sopra di noi ".

CANTO VENTICINQUESIMO

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
3 gridando: "Togli, Dio, ch’a te le squadro!".
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
6 come dicesse "Non vo’ che più diche";
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
9 che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
12 poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
15 non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
18 venir chiamando: "Ov’è, ov’è l’acerbo?".
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
21 infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
24 e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: "Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
27 di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
30 del grande armento ch’elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
33 gliene diè cento, e non sentì le diece".
Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
36 de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: "Chi siete voi?";
per che nostra novella si ristette,
39 e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
42 che l’un nomar un altro convenette,
dicendo: "Cianfa dove fia rimaso?";
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
45 mi puosi ’l dito su dal mento al naso.
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
48 ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
51 dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,
e con li anterïor le braccia prese;
54 poi li addentò e l’una e l’altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
57 e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
60 per l’altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
63 né l’un né l’altro già parea quel ch’era:
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
66 che non è nero ancora e ’l bianco more.
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: "Omè, Agnel, come ti muti!
69 Vedi che già non se’ né due né uno".
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
72 in una faccia, ov’eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
75 divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
78 parea; e tal sen gio con lento passo.
Come ’l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
81 folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
84 livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
87 poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
90 pur come sonno o febbre l’assalisse.
Elli ’l serpente, e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
93 fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov’ e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
96 e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
99 converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
102 a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
105 e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
108 non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
111 si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
114 tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di retro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
117 e ’l misero del suo n’avea due porti.
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
120 per l’una parte e da l’altra il dipela,
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
123 sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
126 uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
129 e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
132 come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
135 ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
138 e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: "I’ vo’ che Buoso corra,
141 com’ho fatt’io, carpon per questo calle".
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
144 la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
147 non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
150 che venner prima, non era mutato;
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

PARAFRASI
Non appena ebbe finito di parlare il ladro levò entrambi i pugni col pollice sporgente fra l’indice e il medio, gridando: " Prendi, Dio, poiché rivolgo a te questo gesto! " Da allora in poi i serpenti mi diventarono cari, poiché uno gli si attorcigliò in quello stesso istante al collo, come per dire "Non voglio che parli oltre", ed un altro alle braccia, e lo legò nuovamente, congiungendo con tale forza capo e coda sul suo davanti, che (il dannato) non poteva con esse fare alcun movimento. Ahi Pistoia, Pistoia, perché non decidi di ridurti in cenere in modo da non esistere più, dal momento che superi nel fare il male i tuoi fondatori ? In nessuno dei tenebrosi cerchi infernali vidi mai un dannato così superbo verso Dio, neppure colui (Capaneo) che precipitò dall’alto delle mura di Tebe. Quello fuggì senza più dire parola; ed io scorsi un centauro gonfio d’ira avanzare gridando: " Dov’è, dov’è quel ribelle ? " Non credo che la Maremma abbia tante serpi, quante quello aveva sulla groppa fin dove cominciano le fattezze umane. Sopra le sue spalle, dietro la nuca, stava un drago con le ali aperte; e questo investiva col fuoco chiunque s’imbatteva in lui, Virgilio disse: " Costui è Caco, il quale nella spelonca sul monte Aventino molte volte fu autore di sanguinose stragi. Non percorre la medesima strada dei suoi simili (posti a guardia del primo girone dei violenti) a causa del furto che compì con l’inganno della grande mandria che ebbe a portata di mano; per questo le sue azioni scellerate ebbero termine sotto la clava di Ercole, il quale probabilmente gli assestò cento colpi, mentre egli non riuscì a sentirne nemmeno dieci ". Mentre diceva queste cose, ecco che Caco passò oltre e tre ombre vennero sotto il luogo in cui ci trovavamo, delle quali né io né Virgilio ci accorgemmo, se non quando gridarono: "Chi siete?": onde il nostro discorrere cessò, e da quel momento in poi facemmo attenzione soltanto a loro. Io non li riconoscevo; ma accadde, come suole accadere casualmente, che uno di loro dovesse fare il nome di un altro, dicendo: "Dove sarà rimasto Cianfa? ": per la qual cosa io, affinché Virgilio prestasse attenzione, gli feci segno di tacere. Se tu ora, lettore, sei restio a credere ciò che dirò, non sarà cosa strana, dal momento che io, che ne fui spettatore, consento a malapena a me stesso di crederlo. Mentre tenevo gli occhi rivolti verso di loro, ecco che un serpente con sei piedi si scaglia contro uno di loro, e aderisce a lui interamente. Con i piedi centrali gli serrò il ventre, e con quelli anteriori gli afferrò le braccia; poi gli morsicò entrambe le guance; stese i piedi posteriori lungo le cosce, e fra queste infilò la coda, e la tese nuovamente su per il suo dorso. Edera non fu mai a tal punto stretta ad un albero, come il mostro spaventoso avvinse le sue membra a quelle dei dannato. Dopo che si fusero insieme come fossero stati di cera calda, e mescolarono i loro colori, né l’uno né l’altro sembrava più quello di prima, come sulla superficie della carta si muove, precedendo la fiamma, un colore scuro che non è ancora nero e non è più bianco. Gli altri due lo osservavano attentamente, e ciascuno gridava: " Ahimè, Agnolo, come, ti trasformi ! Vedi che ormai non sei né due figure né una sola ". Le due teste erano già divenute una sola, allorché ci apparvero due aspetti fusi in un unico volto, nel quale erano due esseri che avevano smarrito la propria fisionomia. Dall’ unione di quattro strisce (le braccia dell’uomo ed i piedi anteriori del serpente) ebbero origine le braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto divennero membra mai vedute prima d’allora. Ogni sembianza precedente era li cancellata: la figura deforme aveva l’aspetto di due cose e di nessuna; e così se ne andò con lenta andatura. Come il ramarro sotto la grande sferza del sole nei giorni della Canicola (dal 21 luglio al 21 agosto), nel passare da una siepe all’altra, sembra un fulmine se attraversa la strada, così appariva, nel dirigersi verso i ventri degli altri due, un piccolo serpente infuriato, scuro e nero come un granello di pepe; e trafisse ad uno di loro quel punto del corpo attraverso il quale, quando siamo nel grembo materno, riceviamo il cibo; poi cadde disteso per terra davanti a quello. Il trafitto lo guardò, ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava proprio come se fosse preso da sonno o febbre. Egli guardava il serpente, e questo (guardava) lui; l’uno attraverso la ferita, e l’altro attraverso la bocca emettevano un fumo denso, e i due fumi si mescolavano incontrandosi. Più non si vanti Lucano per il passo in cui tratta dell’infelice Sabello e di Nassidio, e ascolti attentamente ciò che ora esce dalla mia fantasia. Più non si vanti Ovidio a proposito di Cadmo e di Aretusa; poiché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, io non lo invidio; mai infatti egli trasformò due esseri posti l’uno di fronte all’altro in modo che le forme di entrambi fossero in grado di scambiarsi la loro materia. (Le due nature) si corrisposero l’una all’altra secondo questa regola, il serpente divise la sua coda in forma di forca, e il trafitto unì insieme i suoi piedi. Le gambe, e nel medesimo tempo le cosce, si fusero insieme a tal punto, che in breve la linea d’unione non mostrava più alcun segno che fosse visibile. La coda divisa prendeva la forma che si perdeva nell’uomo, e la sua pelle diveniva morbida (come quella dell’uomo), mentre quell’altra s’induriva (come quella del serpente). Vidi le braccia ritirarsi attraverso le ascelle, e i due piedi della bestia, che erano corti, allungarsi tanto quanto quelle si accorciavano. Poi i piedi posteriori, attorcigliati l’uno all’altro, si trasformarono nel membro che l’uomo nasconde, e l’ infelice dal suo membro aveva fatto uscire due piedi. Mentre il fumo ricopriva di nuovo colore sia l’uno che l’altro, e faceva spuntare il pelo sul serpente privandone l’uomo, uno si alzò (quello che era serpente) e l’altro (quello che era uomo) piombò a terra, senza che per questo l’uno distogliesse dall’altro gli occhi malvagi, sotto i quali ognuno mutava volto. Quello che era in piedi, ritirò il suo muso verso le tempie, e per l’eccessiva materia che in quella parte della testa si raccolse, vennero fuori dalle gote, che in precedenza ne erano prive, le orecchie: ciò che di quell’eccesso di materia non si ritirò e rimase dov’era, formò il naso per il volto, e ingrossò le labbra quanto fu necessario. Quello che stava disteso a terra, aguzzò il proprio volto, e ritirò le orecchie dentro la testa, come la lumaca fa con le sue corna; e la lingua, che in precedenza aveva avuto tutta d’un pezzo e pronta a parlare, si divise, mentre quella biforcuta nell’altro divenne unita; e il fumo cessò. Lo spirito che si era trasformato in serpente, fuggì sibilando per la bolgia, e l’altro parlando sputò dietro di lui. Quindi gli voltò le spalle formale da poco, e disse all’altro (al ladro che non ha subìto metamorfosi): "Voglio che Buoso corra carponi per questo sentiero, come ho fatto io". Vidi in tal modo i dannati della settima bolgia trasformarsI e scambiarsi le fattezze; e a questo proposito la straordinarietà dell’argomento valga a scusarmi, se il mio scrivere manca un poco di chiarezza. E sebbene i miei occhi fossero alquanto disorientati, e l’animo sgomento, quei due non poterono allontanarsi tanto di nascosto, che io non riuscissi a distinguere chiaramente Puccio Sciancato; ed era il solo, dei tre dannati che prima erano sopraggiuntí insieme, che non aveva subìto trasformazioni: l’altro era quello a causa del quale, tu, Gaville, ti lamenti.

CANTO VENTIQUATRESIMO

In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
3 e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
6 ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
9 biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
12 poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro,
15 e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
18 e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;
ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
21 dolce ch’io vidi prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
24 ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
27 così, levando me sù ver’ la cima
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: "Sovra quella poi t’aggrappa;
30 ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia".
Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
33 potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
36 non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
39 lo sito di ciascuna valle porta
che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
42 onde l’ultima pietra si scoscende.
La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
45 anzi m’assisi ne la prima giunta.
"Omai convien che tu così ti spoltre",
disse ’l maestro; "ché, seggendo in piuma,
48 in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
51 qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
54 se col suo grave corpo non s’accascia.
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
57 Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia".
Leva’mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentìa,
60 e dissi: "Va, ch’i’ son forte e ardito".
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
63 ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
66 a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
69 ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
72 per ch’io: "Maestro, fa che tu arrivi
da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’i’ odo quinci e non intendo,
75 così giù veggio e neente affiguro".
"Altra risposta", disse, "non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
78 si de’ seguir con l’opera tacendo".
Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
81 e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
84 che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
87 produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
90 né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
93 sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
96 e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
99 là dove ’l collo a le spalle s’annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
102 convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa,
105 e ’n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
108 quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
111 e nardo e mirra son l’ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
114 o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
117 ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era il peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
120 che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: "Io piovvi di Toscana,
123 poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
126 bestia, e Pistoia mi fu degna tana".
E ïo al duca: "Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
129 ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci".
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
132 e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: "Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
135 che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
138 ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
141 se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi:
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
144 poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
147 e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
150 sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ho perché doler ti debbia!".

PARAFRASI
In quel periodo dell’ anno nato da poco in cui il sole rende più caldi i suoi raggi trovandosi nella costellazione dell’Acquario e già le notti si avviano a durare dodici ore, quando la brina riproduce sulla terra l’aspetto della neve, ma la sua penna (con la quale ritrae l’immagine della neve) si spunta rapidamente, il povero contadino al quale mancano le provviste, si alza, e guarda, e vede tutta la campagna imbiancata, per cui si percuote il fianco, rientra in casa, e andando di qua e di là si lamenta, come il misero che non sa cosa fare: poi torna fuori, e riprende la speranza, vedendo che il mondo ha mutato in poco tempo aspetto, e prende il suo bastone, e spinge fuori le pecorelle al pascolo. Nello stesso modo Virgilio mi fece sbigottire quando lo vidi con aspetto così turbato, ed altrettanto rapidamente giunse la medicina al mio spavento, poiché, non appena giungemmo al ponte franato, la mia guida si rivolse a me con quell’atteggiamento affettuoso che io avevo precedentemente veduto ai piedi del colle (canto I, versi 13 e 77). Aprì le braccia, dopo aver preso dentro di sé una decisione e aver osservato prima attentamente la frana, e mi afferrò. E come colui che agisce e valuta, il quale dà sempre l’impressione di pensare prima di agire, in tal modo, mentre mi sollevava verso la sommità di un masso sporgente, cercava con lo sguardo un’altra sporgenza dicendo: " Afferrati poi a quella; ma accertati prima se è abbastanza salda da reggerti ". Quella non era una strada che gli ipocriti, vestiti delle loro pesanti cappe, avrebbero potuto percorrere, poiché a stento noi, egli leggero (perché puro spirito) e io spinto da lui, potevamo salire di appiglio in appiglio; e se non fosse stato per il fatto che su quell’argine più che sull’altro il pendio era breve, non so cosa sarebbe accaduto a Virgilio, ma io senz’altro sarei stato sopraffatto (dalla stanchezza). Ma poiché Malebolge è tutta quanta inclinata verso l’apertura della voragine più bassa (che porta al nono cerchio), la posizione di ogni bolgia comporta che un argine (quello esterno) si eleva maggiormente e l’altro (quello interno) è invece più basso: noi infine giungemmo sulla sommità dalla quale l’ultimo masso (del ponte franato) sporge in fuori. Il fiato a tal punto mi era stato spremuto fuori dai polmoni nel momento in cui raggiunsi la cima, che non potevo più andare avanti, anzi mi sedetti appena arrivato. "Ormai è necessario che tu con fatiche di questo genere ti tolga di dosso la pigrizia" disse Virgilio; " poiché, adagiandosi sui cuscini, o sotto le coperte, non si raggiunge la fama; chi termina la sua vita senza questa, lascia di sé sulla terra una traccia simile a quelle che lasciano il fumo nell’aria e la schiuma nell’acqua. E perciò alzati: vinci l’affanno con la volontà che trionfa di qualsiasi difficoltà, se non si abbatte con il corpo pesante cui è legata. Occorre salire una scala più lunga (dal centro della terra alla vetta dei purgatorio); non è sufficiente che tu ti sia allontanato da questi dannati: se mi capisci, ora fa in modo che la mia esortazione ti sia d’ aiuto." Allora mi alzai, mostrandomi provvisto di forze più di quanto io stesso me ne sentissi, e dissi: " Procedi, poiché sono forte e coraggioso ". Ci incamminammo sul ponte (che varca la settima bolgia), il quale era irto di sporgenze, angusto e difficile da percorrere ed assai più ripido di quello precedente. Procedevo parlando per non apparire stanco; per cui dall’altra bolgia usci una voce, incapace di articolare parole. Non so che cosa disse, sebbene mi trovassi già sulla sommità del ponte che qui fa da valico: ma colui che parlava pareva spinto a camminare. Io ero rivolto verso il basso, ma il mio sguardo, per quanto penetrante, non poteva arrivare fino al fondo (della bolgia) a causa dell’oscurità; perciò dissi: " Maestro, fa in modo di arrivare all’altro argine e scendiamo giù da questo ponte; poiché, come di qui odo senza comprendere, così vedo quello che c’è nel fondo senza distinguere nulla ". " Non ti do altra risposta se non il fare (ciò che tu chiedi) " disse; "poiché occorre soddisfare la richiesta giusta con i fatti, senza parlare. " Discendemmo per il ponte da quella estremità in cui esso si congiunge con l’argine ottavo, e poi la bolgia mi divenne visibile: e in essa vidi uno spaventoso ammasso di serpenti, e di così strano genere, che il ricordarmene mi guasta ancora il sangue. Più non si vanti la Libia con i suoi deserti, poiché se genera chelidri, iaculi e faree, e cencri con anfisibene, mai mise in mostra tanti animali velenosi né così nocivi insieme con tutta l’Etiopia, e con la terra (l’Arabia) che è delimitata dal Mar Rosso. In mezzo a questa feroce e terribile moltitudine correvano schiere nude e atterrite, senza speranza di trovare riparo o elitropia (pietra che si credeva guarisse dal morso dei serpenti e rendesse invisibili): avevano le mani avvinte dietro la schiena con serpenti; questi spingevano la coda e la testa lungo i loro fianchi, e si attorcigliavano sul loro davanti. Ed ecco che contro uno che si trovava dalla parte del nostro argine, si scagliò un serpente che lo trafisse nel punto in cui il collo si congiunge alle spalle. Non si scrisse mai tanto rapidamente né " o " né " i ", come quello prese fuoco e bruciò, e dovette, cadendo, diventare tutto quanto cenere; e dopo che fu così annientato a terra, la cenere si radunò insieme per virtù propria, e si trasformò di colpo nello stesso dannato di prima: allo stesso modo i grandi sapienti affermano che la fenice muore e in un secondo tempo rinasce, allorché si avvicina al suo cinquecentesimo anno: mentre è in vita non si ciba né di erbe né di biada, ma solo di stille d’incenso e di amomo (resina aromatica), e morendo si avvolge nel nardo e nella mirra. E quale è colui (l’epilettico) che cade, e non ne conosce il perché, a causa di un assalto di demoni che lo fa precipitare a terra, o di un altro impedimento che lo paralizza, il quale, quando si rialza, si guarda attorno del tutto disorientato a causa del grande dolore che ha sofferto, e mentre guarda sospira, tale era il peccatore quando si rialzò. Oh quanto è severa la potenza di Dio, la quale per punizione scaglia tali colpi! Virgilio gli chiese poi chi fosse; onde egli rispose: " Io precipitai dalla Toscana, poco tempo fa, in questa bolgia crudele. Trovai di mio gradimento una vita da bestia, non da uomo, degna del bastardo che fui; sono Vanni Fucci, la bestia, e Pistoia fu il mio degno covo ". E io a Virgilio: " Digli di non sgusciar via, e chiedigli quale peccato lo spinse quaggiù; poiché io lo conobbi come uomo sanguinario e rissoso ". E il peccatore, che capì, non esitò, ma rivolse verso di me l’animo e lo sguardo, e arrossì di malvagia vergogna; poi disse: " Provo più dolore per il fatto che tu mi abbia sorpreso nella condizione miseranda nella quale mi vedi, di quello che provai morendo. Non posso ricusarti quello che mi chiedi: sono collocato così in basso perché fui ladro nella sagrestia riccamente addobbata, e il furto fu allora ingiustamente attribuito ad altri. Ma affinché tu non gioisca per avermi veduto in questo stato, se mai uscirai dall’inferno, Marte fa uscire dalla val di Magra un fulmine avviluppato in nuvole cupe; e con travolgente e aspra tempesta si combatterà a Campo Piceno; per cui esso vigorosamente dissiperà le nubi, in modo che ogni Bianco ne sarà colpito. E ho detto ciò perché ti debba far male! "

CANTO VENTITREESIMO

Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
3 come frati minor vanno per via.
Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
6 dov’el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia "mo" e "issa"
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
9 principio e fine con la mente fissa.
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
12 che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: "Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
15 sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
18 che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa".
Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
21 quand’io dissi: "Maestro, se non celi
te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
24 io li ’magino sì, che già li sento".
E quei: "S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
27 più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
30 sì che d’intrambi un sol consiglio fei.
S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
33 noi fuggirem l’imaginata caccia".
Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
36 non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
39 e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
42 tanto che solo una camiscia vesta;
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
45 che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
48 quand’ella più verso le pale approccia,
come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
51 come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
54 sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
57 poder di partirs’indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
60 piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
63 che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
66 che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
69 con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
72 di compagnia ad ogne mover d’anca.
Per ch’io al duca mio: "Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
75 e li occhi, sì andando, intorno movi".
E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: "Tenete i piedi,
78 voi che correte sì per l’aura fosca!
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi".
Onde ’l duca si volse e disse: "Aspetta,
81 e poi secondo il suo passo procedi".
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
84 ma tardavali ’l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
87 poi si volsero in sé, e dicean seco:
"Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
90 vanno scoperti de la grave stola?".
Poi disser me: "O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
93 dir chi tu se’ non avere in dispregio".
E io a loro: "I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
96 e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
99 e che pena è in voi che sì sfavilla?".
E l’un rispuose a me: "Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
102 fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
105 nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
108 ch’ancor si pare intorno dal Gardingo".
Io cominciai: "O frati, i vostri mali...";
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
111 un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
114 e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
mi disse: "Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
117 porre un uom per lo popolo a’ martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
120 qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
123 che fu per li Giudei mala sementa".
Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
126 tanto vilmente ne l’etterno essilio.
Poscia drizzò al frate cotal voce:
"Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
129 s’a la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
132 che vegnan d’esto fondo a dipartirci".
Rispuose adunque: "Più che tu non speri
s’appressa un sasso che de la gran cerchia
135 si move e varca tutt’i vallon feri,
salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
138 che giace in costa e nel fondo soperchia".
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: "Mal contava la bisogna
141 colui che i peccator di qua uncina".
E ’l frate: "Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
144 ch’elli è bugiardo e padre di menzogna".
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
147 ond’io da li ’ncarcati mi parti’
dietro a le poste de le care piante.

PARAFRASI
Silenziosi, soli, non più accompagnati (dai diavoli) procedevamo l’uno davanti all’altro, come i francescani camminano per la strada. A causa della recente zuffa il mio pensiero era rivolto alla favola di Esopo, nella quale egli narra della rana e del topo; poiché "ora" e "adesso" non sono più uguali, di quanto non lo siano la favola e la zuffa, se si confrontano con attenzione l’inizio e la fine. E come un pensiero scaturisce all’ improvviso dall’altro, così da quello ne venne fuori in un secondo tempo un altro, che raddoppiò in me la paura di prima. Io ragionavo in questo modo: " Costoro sono stati per causa nostra derisi con tale danno e tale scorno, che ritengo che a loro rincresca grandemente. Se l’ira si aggiunge alla cattiveria, essi ci inseguiranno più inferociti del cane nei confronti della lepre che addenta. Sentivo già arricciarmisi tutti i peli per lo spavento, e volgevo attento lo sguardo indietro, allorché dissi: " Maestro, se non nascondi rapidamente te e me, io ho paura dei Malebranche: li abbiamo già alle nostre spalle: li vedo a tal punto con l’immaginazione, che già li sento (dietro di noi) ". E Virgilio: " Se fossi uno specchio, non rifletterei più rapidamente la tua immagine esterna, di quanto ora imprimo in me la tua immagine interna. Proprio ora i tuoi pensieri raggiungevano i miei, col medesimo atteggiamento e con il medesimo aspetto dei miei, in modo che dagli uni e dagli altri ho tratto una sola risoluzione. Se si dà il caso che la parete a destra abbia una così scarsa pendenza, che noi possiamo scendere nell’altra bolgia (la sesta), sfuggiremo all’inseguimento temuto ". Non finì neppure di manifestare tale proposito, che io li vidi sopraggiungere non molto lontani da noi con le ali spiegate, per volerci ghermire. Virgilio mi afferrò immediatamente, come la madre che si sveglia al frastuono, e vede accanto a sé le fiamme ardenti, la quale afferra il figlio e fugge e, avendo più cura di lui che di se stessa, non si ferma neppure quel poco tempo necessario ad indossare una camicia; e dalla sommità dell’argine pietroso si lasciò scivolare sul dorso lungo la parete scoscesa, che chiude uno dei lati dell’altra bolgia. L’acqua non corse mai così velocemente attraverso un condotto per far girare la ruota di un mulino costruito sulla terraferma, nel punto in cui essa maggiormente si avvicina alle pale, come Virgilio su quella parete dell’argine, mentre mi portava tenendomi, sul petto, come se fossi stato suo figlio, non un compagno. Alla similitudine della madre, così ricca di contenuto umano, segue una similitudine volta a determinare soltanto la velocità con la quale Virgilio scende lungo la scarpata che porta al fondo della sesta bolgia. In essa la tinta patetica cede momentaneamente di fronte alla nuda vìolenza della figurazione rapinosamente incisiva" (Sanguineti). Appena i suoi piedi raggiunsero la superficie del fondo della bolgia, essi furono sulla sommità dell’argine sopra di noi; ma non vi era più motivo di temere, poiché la divina provvidenza che volle porli quali esecutori dei suoi decreti nella quinta bolgia, toglie a tutti loro la possibilità di allontanarsi di lì. Laggiù incontrammo una moltitudine dipinta che andava intorno con passi lentissimi, lacrimando e stanca e affranta nell’aspetto. Questi dannati indossavano cappe con i cappucci abbassati davanti agli occhi, fatte nel modo in cui si fanno a Cluny per i monaci. Esternamente sono dorate tanto da abbagliare; ma dentro sono completamente di piombo, e così pesanti, che (al confronto) Federico Il le faceva indossare di paglia. Oh veste opprimente per l’eternità! Noi ci dirigemmo ancora, come al solito, verso sinistra nella stessa direzione di quei dannati, osservandone il pianto sconsolato; ma a causa del peso quella moltitudine sfinita avanzava così lentamente, che noi avevamo nuovi compagni ad ogni passo. Perciò dissi a Virgilio: " Cerca di trovare qualcuno che sia famoso per le sue azioni o per il suo nome, e, continuando a camminare così, volgi lo sguardo intorno a te ". E uno, che udì il parlare toscano, gridò dietro di noi: " Fermatevi, voi che avanzate così veloci nell’aria buia! Forse otterrai da me quello che domandi ". Perciò Virgilio si voltò e disse: "Attendi, e poi avanza col suo passo ". Sostai, e vidi due che, con l’espressione del volto, mostravano una grande ansia di essere con me; ma il peso e l’angusto cammino li rendevano lenti. Quando furono arrivati, mi osservarono a lungo con sguardo obliquo senza parlare; quindi si rivolsero l’uno verso l’altro, dicendo fra loro: "Questo sembra vivo dal movimento della gola (perché respira); e se invece sono morti, per quale privilegio avanzano privi della pesante cappa?" Poi mi dissero: "O Toscano, che sei giunto al raduno dei tristi ipocriti, non disdegnare di dire chi sei". E io a costoro: " Nacqui e fui allevato nella grande città sulle rive del bel fiume Arno, e mi trovo qui col corpo che ho sempre avuto. Ma chi siete voi, ai quali tante lagrime quante ne vedo scendono copiose lungo le gote? e quale castigo è il vostro, che brilla in tal modo? " E uno di loro mi rispose: " Le cappe dorate sono di piombo così spesso, che i pesi fanno in tal modo gemere le loro bilance. Fummo frati Gaudenti, e bolognesi; chiamati io Catalano e questo Loderingo, e scelti entrambi dalla tua città, come è usanza che sia scelto un uomo solo per salvaguardarne la pace; e il nostro comportamento fu tale, che le conseguenze sono ancora visibili tutt’intorno al Gardingo ". Cominciai a dire: " Frati, i vostri supplizi ... "; ma non aggiunsi altro, poiché mi si presentò allo sguardo uno, crocifisso in terra per mezzo di tre pali. Quando mi vide, si contorse tutto quanto, sospirando nel folto della barba; e frate Catalano, che si era accorto di ciò, mi disse: " Quell’inchiodato che tu osservi, espresse ai Farisei il parere che era opportuno per il bene pubblico suppliziare un uomo. E’ posto di traverso, nudo, sul cammino, come tu stesso vedi, ed è necessario che egli senta, prima che sia passato, quanto pesa chiunque passa. E allo stesso modo soffrono in questa bolgia suo suocero, e gli altri appartenenti al concilio che per gli Ebrei rappresentò un inizio di sventure ". Allora vidi Virgilio stupirsi riguardo a colui che stava disteso in croce in modo così ignobile nel luogo dell’eterna dannazione. Quindi rivolse al frate queste parole: " Non vi spiaccia, se vi è permesso,. dirci se verso destra si apre un passaggio attraverso il quale noi due possiamo uscire di qui, senza dover obbligare i diavoli a venire a toglierci da questa fossa ". Allora rispose: " Più di quanto tu non speri è vicino un ponte che parte dalla grande parete che circonda Malebolge (dalla gran cerchia) e attraversa tutti gli spaventosi ripiani, il quale però in questa bolgia è spezzato e non la valica: potrete salire su per le macerie (di questo ponte), che si adagiano lungo il pendio (che giace in costa) e si elevano sul fondo della bolgia ". Virgilio restò per un po’ a testa bassa; poi disse: " Riferiva male lo stato delle cose colui che afferra con gli uncini i peccatori nella quinta bolgia ". E il frate: " A Bologna io udii una volta menzionare molti vizi del diavolo, tra i quali appresi che egli è bugiardo, e mentitore per eccellenza ". Dopo ciò Virgilio se ne andò a gran passi, un po’ alterato dall’ira nell’aspetto, per cui mi allontanai dagli oppressi dalle cappe dietro le orme degli amati piedi.

CANTO VENTIDUESIMO

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
3 e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
6 fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
9 e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
12 né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
15 coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
18 e de la gente ch’entro v’era incesa.
Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
21 che s’argomentin di campar lor legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori ’l dosso
24 e nascondea in men che non balena.
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
27 sì che celano i piedi e l’altro grosso,
sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
30 così si ritraén sotto i bollori.
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ’ncontra
33 ch’una rana rimane e l’altra spiccia;
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
36 e trassel sù, che mi parve una lontra.
I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
39 e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.
"O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!",
42 gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: "Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
45 venuto a man de li avversari suoi".
Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
48 "I’ fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
51 distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
54 di ch’io rendo ragione in questo caldo".
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
57 li fé sentir come l’una sdruscia.
Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
60 e disse: "State in là, mentr’io lo ’nforco".
E al maestro mio volse la faccia;
"Domanda", disse, "ancor, se più disii
63 saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia".
Lo duca dunque: "Or dì : de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
66 sotto la pece?". E quelli: "I’ mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
69 ch’i’ non temerei unghia né uncino!".
E Libicocco "Troppo avem sofferto",
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
72 sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
75 si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
78 domandò ’l duca mio sanza dimoro:
"Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?".
81 Ed ei rispuose: "Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
84 e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
87 barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
90 le lingue lor non si sentono stanche.
Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
93 non s’apparecchi a grattarmi la tigna".
E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
96 disse: "Fatti ’n costà, malvagio uccello!".
"Se voi volete vedere o udire",
ricominciò lo spaürato appresso,
99 "Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
102 e io, seggendo in questo loco stesso,
per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
105 di fare allor che fori alcun si mette".
Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: "Odi malizia
108 ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!".
Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: "Malizioso son io troppo,
111 quand’io procuro a’ mia maggior trestizia".
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: "Se tu ti cali,
114 io non ti verrò dietro di gualoppo,
ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
117 a veder se tu sol più di noi vali".
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
120 quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
123 saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
126 però si mosse e gridò: "Tu se’ giunto!".
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
129 e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
132 ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
135 che quei campasse per aver la zuffa;
e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
138 e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
141 cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
144 sì avieno inviscate l’ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
147 con tutt’i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
150 ch’eran già cotti dentro da la crosta;
e noi lasciammo lor così ’mpacciati.

PARAFRASI
Io vidi un tempo cavalieri mettersi in marcia, e iniziare l’assalto e fare evoluzioni durante le parate, e a volte ritirarsi per mettersi in salvo; vidi soldati a cavallo sul vostro suolo, o Aretini, e vidi fare incursioni devastatrici, scontrarsi le squadre nei tornei e cimentarsi i singoli nei duelli; a volte con trombe, e a volte con campane, con tamburi e con segnali dalle fortezze, e con strumenti nostri e forestieri; ma certamente mai con un così insolito zufolo vidi partire cavalieri o fanti, o nave ad un segnale dato dalla riva o indicato da una costellazione. Noi procedevamo con i dieci diavoli: ah, paurosa compagnia! ma in chiesa si sta con i santi, e nell’osteria con i furfanti. La mia attenzione era rivolta costantemente alla pece, per osservare ogni aspetto della bolgia e della moltitudine che in essa era bruciata. Come i delfini, quando, inarcando il dorso, avvertono i marinai d’ingegnarsi a salvare la loro nave, così talvolta, per alleviare la sofferenza, qualcuno dei dannati esponeva la schiena, e la celava più rapido del lampo. E come i ranocchi stanno sull’ orlo dell’acqua di un fossato col solo muso fuori, in modo da nascondere le zampe e il resto del corpo, così i peccatori stavano da ogni parte; ma non appena Barbariccia si avvicinava, subito si ritiravano sotto la pece bollente. Vidi, e ancora il mio cuore ne prova sgomento, uno di loro stare in attesa, così come accade che una rana resta ferma e un’altra spicca il salto; e Graffiacane che più degli altri gli stava di fronte, gli afferrò con l’uncino i capelli impeciati e lo sollevò, in modo che mi sembrò, una lontra. Io conoscevo già il nome di tutti quanti i diavoli. poiché li avevo con tanta cura annotati quando vennero scelti, e poi avevo fatto attenzione al modo in cui si chiamavano l’un l’altro. " O Rubicante, fa in modo di mettergli addosso gli artigli, in modo da scuoiarlo! " urlavano concordi i malvagi. E io: " Maestro, cerca, se puoi, di sapere chi è lo sventurato caduto in balìa dei suoi nemici ". Virgilio gli si avvicinò fermandosi al suo fianco; gli chiese di dove fosse, e quello rispose: " Io fui nativo del regno di Navarra. Mia madre, che mi aveva generato da un furfante, suicida e scialacquatore, mi mise al servizio di un signore. Fui in seguito alla corte del valente re Tebaldo: qui mi diedi ad esercitare la baratteria; del quale peccato rendo conto in questo bollore ". Tebaldo Il, re di Navarra dal 1253 al 1270, ebbe fama di sovrano munifico, giusto e clemente. E Ciriatto, al quale dalla bocca sporgeva da ogni parte una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una di esse lacerava. Il topo era capitato tra gatte cattive; ma Barbariccia lo circondò con le braccia, e disse: " State lontani, finché lo tengo stretto ". E rivolse il viso a Virgilio: " Chiedi ancora " disse " se desideri sapere altro da lui, prima che qualcuno ne faccia scempio ". Allora Virgilio: " Dimmi dunque: degli altri malvagi che stanno sotto la pece, conosci qualcuno che sia italiano ? " E quello: " Io mi allontanai, poco fa, da uno che fu di quelle parti: potessi ancora essere sotto la pece con lui! non avrei infatti da temere artiglio né uncino ". Pure Draghignazzo lo volle colpire giù nelle gambe; per cui il loro capo si volse tutto intorno con espressione adirata. Quando costoro si furono un po’ quietati, Virgilio senza indugio domandò a lui, che ancora osservava la sua ferita: "Chi fu quello dal quale dici che facesti male a separarti per avvicinarti alla riva ? " Ed egli rispose: "Fu frate Gomita, quello di Gallura, ricettacolo d’ogni inganno, il quale ebbe in suo potere i nemici del suo signore, e li trattò in maniera tale che ognuno se ne compiace. Prese denaro, e li lasciò andare liberi con procedimento sommario, così come egli stesso dice; e anche neglì altri incarichi non fu barattiere da poco, ma sommo. Sta spesso con lui messer Michele Zanche di Logudoro; e le loro lingue, nel parlare della Sardegna, non avvertono mai la stanchezza. Michele Zanche governò il giudicato di Logudoro (Sardegna nord-orientale) per incarico di re Enzo, figlio dell’imperatore Federico Il. Fu ucciso a tradimento da uno dei suoi generi, il genovese Branca D’Oria. Ahimè, guardate l’altro diavolo che digrigna i denti; parlerei ancora, ma temo che quello si prepari a graffiarmi ". E il grande capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi pronto a colpire, disse: " Tirati in là, uccellaccio ". " Se voi desiderate vedere o ascoltare " riprese a dire quindi quello spaventato "Toscani o Lombardi, io ne farò arrivare; ma che i Malebranche si tengano un po’ in disparte, in modo che essi non temano le loro punizioni; ed io, stando in questo stesso luogo. per uno solo che sono, ne farò venire parecchi quando fischierò, come è nostra abitudine fare allorché qualcuno di noi si tira fuori." Cagnazzo a queste parole alzò il muso, scrollando la testa, e disse: " Senti, I’astuzia che ha escogitato per tuffarsi giù! " Per cui egli, che conosceva raggiri in abbondanza, rispose: " Sono fin troppo astuto, dal momento che causo maggior dolore ai miei compagni ". Alichino non si trattenne e, in contrasto con gli altri demoni gli disse: " Se tu ti immergi, io non ti inseguirò correndo, ma volerò sulla pece: si abbandoni la sommità dell’argine, e l’argine stesso sia a noi riparo, per vedere se tu da solo sei più abile di noi ". O lettore, saprai di un gioco strano ogni diavolo rivolse lo sguardo verso la parte opposta dell’argine; e per primo quello (Cagnazzo) che era stato il più restio a fare ciò. Di ciò ognuno si sentì colpevole, ma maggìormente quello che era stato causa dello sbaglio; perciò si slanciò e gridò: " Tu sei preso ! " Ma a poco gli servì perché le (sue) ali non poterono avere la meglio, sulla paura (del Navarrese) : quello s’immerse, e questo volando diresse verso l’alto il petto: non diversamente l’anitra si tuffa nell’acqua all’improvviso, quando si avvicina il falcone, e questo se ne torna su indispettito"e spossato. Ma Caicabrina adirato per la beffa, lo seguì volando, preso dal desiderio che il Navarrese si salvasse per aver modo di azzuffarsi con Alichino; e non appena il barattiere fu scomparso, immediatamente rivolse gli artigli contro Il suo compagno, e con lui si avvínghiò sopra lo stagno. Ma l’altro fu davvero un rapace sparviero nell’artigliarlo a dovere, e caddero entrambi nel mezzo della palude bollente. Il calore immediatamente li separò; ma uscirne era impossibile, a tal punto avevano le ali invischiate. Barbariccia crucciato insieme agli altri suoi compagni, ordinò che quattro volassero fin sull’altra sponda con tutti i loro uncini, e questi, molto velocemente di qua, di là, calarono nel posto indicato: tesero gli uncini in direzione degli invischiati, che erano già bruciati sotto la pelle diventata dura e noi li abbandonammo mentre si trovavano in queste difficoltà.

CANTO VENTUNESIMO

Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
3 venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando
restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
6 e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
9 a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno - in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
12 le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
15 chi terzeruolo e artimon rintoppa -:
tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
18 che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ’l bollor levava,
21 e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr’io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo "Guarda, guarda!",
24 mi trasse a sé del loco dov’io stava.
Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
27 e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
30 correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
33 con l’ali aperte e sovra i piè leggero!
L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
36 e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.
Del nostro ponte disse: "O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
39 Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
42 del no, per li denar, vi si fa ita".
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
45 con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
48 gridar: "Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
51 non far sopra la pegola soverchio".
Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: "Coverto convien che qui balli,
54 sì che, se puoi, nascosamente accaffi".
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
57 la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro "Acciò che non si paia
che tu ci sia", mi disse, "giù t’acquatta
60 dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
63 perch’altra volta fui a tal baratta".
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’el giunse in su la ripa sesta,
66 mestier li fu d’aver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello
69 che di sùbito chiede ove s’arresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’i runcigli;
72 ma el gridò: "Nessun di voi sia fello!
Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,
75 e poi d’arruncigliarmi si consigli".
Tutti gridaron: "Vada Malacoda!";
per ch’un si mosse - e li altri stetter fermi -
78 e venne a lui dicendo: "Che li approda?".
"Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto", disse ’l mio maestro,
81 "sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler divino e fato destro?
Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
84 ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro".
Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
87 e disse a li altri: "Omai non sia feruto".
E ’l duca mio a me: "O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
90 sicuramente omai a me ti riedi".
Per ch’io mi mossi, e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
93 sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;
così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
96 veggendo sé tra nemici cotanti.
I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi
99 da la sembianza lor ch’era non buona.
Ei chinavan li raffi e "Vuo’ che ’l tocchi",
diceva l’un con l’altro, "in sul groppone?".
102 E rispondien: "Sì, fa che gliel’accocchi".
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
105 e disse: "Posa, posa, Scarmiglione!".
Poi disse a noi: "Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
108 tutto spezzato al fondo l’arco sesto.
E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
111 presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
114 anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso là di questi miei
a riguardar s’alcun se ne sciorina;
117 gite con lor, che non saranno rei".
"Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina",
cominciò elli a dire, "e tu, Cagnazzo;
120 e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
123 e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate ’ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio
126 che tutto intero va sovra le tane".
"Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?",
diss’io, "deh, sanza scorta andianci soli,
129 se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.
Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
132 e con le ciglia ne minaccian duoli?".
Ed elli a me: "Non vo’ che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
135 ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti".
Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
138 coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.

PARAFRASI
In tal modo giungemmo da un ponte all’altro (da quello della quarta bolgia a quello della quinta), discorrendo di cose che il mio poema non si propone di prendere in considerazione; e ci trovavamo sul culmine del ponte, allorché ci fermammo per vedere l’altra cavità di Malebolge e gli altri lamenti inutili; e la vidi straordinariamente buia. Come nell’arsenale dei Veneziani durante l’inverno bolle la pece che aderisce e incolla e che serve a spalmare di nuovo le loro navi danneggiate, poiché non possono navigare; e invece di navigare chi si costruisce una nave nuova e chi chiude con la stoppa le falle apertesi nelle fiancate di quella che ha fatto più viaggi; chi dà colpi di martello a prua e chi a poppa; altri fabbricano remi ed altri attorcigliano la canapa per farne funi; alcuni rattoppano la vela minore e altri quella maggiore, così, non a causa del fuoco, ma per opera di Dio, bolliva laggiù una pece densa, che aderiva viscosamente dappertutto alle pareti della bolgia. Io scorgevo questa pece, ma in essa non scorgevo se non le bolle che il bollore sollevava, e la vedevo gonfiarsi tutta quanta, ed abbassarsi come premuta. Mentre io guardavo con attenzione nel fondo della bolgia, Virgilio, dicendomi: " Sta in guardia, sta in guardia! ", mi tirò a sé dal luogo in cui mi trovavo. Allora mi voltai come colui che è impaziente di vedere il pericolo al quale deve sfuggire, e che un’improvvisa paura indebolisce, il quale, per il fatto che guarda, non rimanda la sua fuga; e vidi sopraggiungere alle nostre spalle un diavolo nero che correva sul ponticello roccioso. Ahi, quanto era feroce nell’aspetto! e quanto mi sembrava crudele nell’atteggiamento, con le ali spiegate e leggiero nel suo avanzare! Un dannato gravava con entrambi i fianchi la sua spalla, che era appuntita e sporgente, ed egli ne teneva stretta la caviglia. Dal ponte su cui ci trovavamo disse: " O Malebranche (è il nome dei diavoli di questa bolgia), ecco uno degli anziani di Lucca (città devota a Santa Zita) ! Immergetelo completamente (nella pece), poiché io torno di nuovo in quella città in cui questi peccatori abbondano: in essa ognuno è barattiere, escluso Bonturo; in essa per danaro il no è trasformato in sì ". Lo gettò laggiù, e tornò indietro sul ponte roccioso; e nessun mastino liberato dalla catena fu mai così veloce nell’inseguire il ladro. Quello sprofondò, e riemerse raggomitolato; ma i diavoli che stavano nascosti sotto il ponte, gridarono: "Qui non c’è il Santo Volto: qui si nuota diversamente che nel Serchio! Perciò, se vuoi evitare le nostre unghiate, non sporgerti al di sopra della pece ". Dopo averlo trafitto con innumerevoli uncini, dissero: " Qui dovrai darti da fare coperto (dalla pece), in modo da arraffare, se ti riesce, di nascosto ". Non diversamente i cuochi fanno immergere dai loro inservienti la carne nella pentola con gli uncini, in modo che non venga a galla. Virgilio mi disse: " Perché non si veda che tu ci sei, nasconditi giù, dietro una sporgenza rocciosa, che ti offra qualche riparo; e non lasciarti prendere dal timore, per nessuna offesa che mi venga arrecata, poiché io so come stanno le cose, e già un’altra volta mi trovai in una simile baruffa ". Poi passò oltre l’estremità del ponte; e non appena arrivò sul sesto argine, gli fu necessario avere un atteggiamento risoluto. Con lo stesso impeto e lo stesso frastuono con cui i cani si avventano contro il mendicante il quale chiede l’elemosina subito nel punto in cui si è fermato, i diavoli uscirono da sotto il ponticello, e puntarono contro di lui tutti gli uncini; ma egli gridò: " Nessuno di voi abbia cattive intenzioni ! Prima che i vostri uncini mi colpiscano, si faccia avanti uno di voi e mi ascolti, e dopo si prenda la deliberazione di uncinarmi ". Gridarono tutti: " Si faccia avanti Malacoda! "; per cui uno avanzò, e gli altri stettero fermi, e quello si avvicinò a Virgilio dicendo: " Che gli giova ? " " Credi, Malacoda, di vedermi giunto sin qui " disse Virgilio " al riparo fino ad ora da tutte le vostre opposizioni, senza la volontà di Dio e il destino favorevole? Lasciaci andare, poiché è voluto da Dio che io faccia da guida a qualcuno (Dante) per questo orrido cammino. " Allora la tracotanza lo abbandonò a tal punto, che lasciò cadere l’uncino ai suoi piedi, e rivolto agli altri disse: " Dal momento che le cose stanno così, non sia ferito ". E Virgilio: " O tu che stai appiattato tra le rocce del ponte, torna ormai presso di me senza timore ". Perciò io mi avviai, e velocemente mi avvicinai a lui; e i diavoli avanzarono tutti quanti, tanto che temetti che non avrebbero rispettato il patto: così vidi una volta essere presi dal timore i soldati che uscivano dal castello di Caprona dopo aver raggiunto un accordo sulla loro resa, vedendosi in mezzo a tanti nemici. lo mi avvicinai con tutto il mio corpo a Virgilio, e non distoglievo lo sguardo dal loro aspetto, che non era benevolo. Essi abbassavano gli uncini e: " Vuoi che lo tocchi " dicevano fra loro " sulla schiena? " E rispondevano: " Sì, fa in modo di assestargli un colpo! " Ma il diavolo che stava discorrendo con Virgilio, con grande prontezza si voltò, e disse: " Fermo, fermo, Scarmiglione! " Quindi, rivolto a noi, disse: " Non è possibile proseguire su questa fila di ponti rocciosi, poiché il sesto ponte giace sul fondo (della bolgia) ridotto in frantumi. E se tuttavia desiderate proseguire, andate su per questa roccia (l’argine che separa la quinta dalla sesta bolgia); vicino vi è un’altra serie di ponti che consente il passaggio. Ieri, cinque ore più tardi di quest’ora, si compirono 1266 anni da quando la strada franò in questo punto. Io mando in quella direzione qualcuno di questi miei sottoposti, per osservare se mai qualche dannato esce (dalla pece): andate con loro, poiché non saranno cattivi ". " Vieni avanti, Alichino, e Calcabrina ", prese a dire, " e tu, Cagnazzo; e Barbariccia sia a capo dei dieci. Venga anche Libicocco e Draghignazzo, Ciriatto munito di zanne e Graffiacane e Farfarello e il rabbioso Rubicante. Ispezionate tutt’intorno le bollenti peci: questi siano incolumi fino all’altra fila di ponti che varcano le bolge senza interrompersi. " "Ahimè, maestro, che è quello che vedo?" dissi. "Ti prego, andiamo via di qui soli senza guida, se tu conosci il cammino; poiché, per quel che mi riguarda, non ne ho bisogno. Se tu sei perspicace adesso come di solito, non vedi che digrignano i denti, e con gli occhi minacciano di procurarci dolori ? " E Virgilio: " Non voglio che tu abbia timore: lascia che digrignino come a loro piace meglio, poiché essi lo fanno per i bolliti che soffrono ". Voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ciascuno di loro, rivolto al capo che li guidava, aveva stretto, per un segnale, la lingua con i denti; ed egli aveva fatto uno sconcio suono di tromba.